Le
foglie dei salici erano nuove, brillanti e gli aghi dei larici
teneri, di quel verde chiaro che dura soltanto poche settimane.
La
luce abbagliante di mezzogiorno sbiadiva il cielo che riprendeva
colore solo nel contorno del Tabùrlo, del Taé e degli altri monti.
Uomini
e donne vestiti a festa salivano da Pian de Loa in compagnia del
parroco, scherzavano insieme, la bella giornata e l’occasione
facevano il resto.
Era
la prima domenica di giugno del 1900: le sorelle Franceschi, note in
Ampezzo con il soprannome di Méšcores, avevano scelto quella data
per inaugurare il loro Cabiòto, che era lassù, a lato della strada,
poco prima del Ponte Alto.
Che
forra spaventosa! Mancava il fiato a sporgersi dal parapetto, eppure
qualche ragazzo coraggioso se ne stava lì a guardare, con la testa
penzoloni, mentre gli altri, che al ponte non erano neppure arrivati,
facevano dentro e fuori del locale - una bella baita di legno d’abete
rosso con graziose tendine di pizzo alle finestre – con un
bicchiere di vino e un pezzetto di lardo.
Fuori,
ad un lato della porta, erano stati sistemati alcuni tavolini con
sedie, e intorno ad uno di questi si erano accomodate tre anziane
signore cui l’età non aveva tolto né il bel colorito roseo, né
un robusto appetito.
Era
stato il farmacista a portarle fin lì su di un carretto da fieno, e
loro gli avevano chiesto di non passare a prenderle prima che andasse
giù il sole. Niente di più facile dal momento che il farmacista
considerava il vino la migliore delle medicine e quel giorno ne aveva
già bevuto a sufficienza: dopo solo un’ora si era accomodato sul
prato caldo di sole dietro al Cabiòto, la giacca appallottolata a
cuscino, le braccia conserte sul petto e i piedi appoggiati su una
ceppaia che sembrava messa lì apposta. Buon riposo!
Ma
torniamo alle padrone di casa, le Méšcores, cioè “i mattarelli”,
che, come il soprannome lascia immaginare erano grandi cuoche. Anzi
grandissime.
Nella
loro casa di Ciademai avevano iniziato un mese prima a preparare i
casunziéi con gli s-ciopetìs e ne avevano fatti
cinquecento. Un lavoro infinito, paziente e preciso, come solo le
donne possono fare. E prima, per settimane, nei prati ai piedi del
Pomagagnon, avevano raccolto le pianticelle quando ancora non avevano
messo i fiori bianchi a palloncino e quindi non era facile
riconoscerle.
Bene,
di tutti quei casunziéi su al Cabiòto ne erano arrivati poco
più di quattrocento, gli altri avevano fatto gola ad una volpe,
madre da poco e perciò indebolita e con bocche voraci da sfamare.
Senza
perdersi d’animo le Méšcores avevano messo in cantiere una
minestra d’orzo che sarebbe bastata a dieci cucciolate di volpi
fameliche, ma l’avevano cucinata su a Ponte Alto, in un paiolo di
bronzo su cui il fabbro Sgnèco aveva inciso con caratteri
svolazzanti il nome del nuovo ristorante, “Cabiòto de ra
Méšcores”.
Come
dolce, per finire in bellezza quel pranzo inaugurale, avrebbero
servito degli ottimi carafoi.
Dal
fondovalle la gente continuava ad arrivare in gruppetti, a coppie,
qualcuno era da solo ma avrebbe trovato degli amici, e si assiepava
fuori del Cabiòto per un bicchiere di vino, un piatto di minestra o
dei casunziéi. Ci fu anche chi, nella gran confusione, urtò una
delle tre anziane signore comodamente sedute, ricevendone in cambio un
colpo di bastone sui polpacci, e ci fu chi, dopo aver bevuto più del
farmacista, disse che avrebbe provato a volare, lanciandosi dal ponte
come aveva fatto quel cavaliere di Marebbe. Per fortuna non accadde
niente di brutto (anche il farmacista si riprese, pronto per tornare
a Cortina con le tre signore sempre più petulanti), anzi fu una
delle più belle giornate della storia d’Ampezzo.
La
prima domenica di giugno del 1900 su al Cabiòto de ra Méšcores,
che da quel giorno per molto tempo avrebbero preparato piatti
squisiti per i passanti.
(racconto di Lorenza Russo, 2015)
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