24 nov 2020

L'enigma della Torre Fragele

Da topo di biblioteca, sfoglio spesso pubblicazioni moderne e antiche che, oltre alla pratica sul campo - ormai purtroppo molto ridotta - alimentano le informazioni sull’ambiente e la storia dolomitica e stimolano a una formazione permanente, che investe anche peculiarità storiche ed ambientali minori. 
Nella guida delle Dolomiti Orientali che il medico ed alpinista veneziano Antonio Berti diede alle stampe per la prima volta nel 1908, un breve paragrafo mi ha incuriosito. 
Vi ho trovato, infatti, un oronimo, «Torre Fragele», che seppur esterno al territorio ampezzano riguarda una guida di Cortina che amò in particolare il gruppo, ancora poco esplorato, dei Cadini di Misurina: Giovanni Cesare Siorpaes Salvador (Jan de Santo). Sconosciuto ai più, l’oronimo si riferisce ad una guglia di soli venticinque metri d'altezza, che campeggia sulla Forcella della Neve fra i rami «della Neve» e «di San Lucano» dei Cadini, molto frequentata da escursionisti e scialpinisti.
Il 21 luglio 1900, la piccola torre fu salita e battezzata dalla ventenne baronessa ungherese Ilona von Eötvös, appassionata delle Dolomiti come il padre Loránd e la sorella maggiore Rolanda, e da «Jan», una delle guide preferite della famiglia. Berti descrisse la salita come difficile, ma di essa non ho trovato traccia in alcuna delle mie solite fonti, se non nella preziosa edizione della guida del 1928. 
Giovanni Cesare Siorpaes Salvador,
più noto come Jan de Santo

Non comprendendo la radice dell’oronimo, mi sono appoggiato a Wolfgang Strobl di Dobbiaco, storico esperto del turismo e dell’alpinismo dolomitico, che sta studiando la famiglia von Eötvös, protagonista di tanta storia otto-novecentesca tra Dobbiaco, Cortina e Auronzo. 
L'amico ha risolto prontamente il caso, ricavandone la soluzione da un articolo del 1902 dell'alpinista germanico Adolf Witzenmann. Fragele, termine tedesco-tirolese di cui non è facile decifrare l’etimologia, non era altro che il nome del cane di Jan de Santo...
Quel giorno di centovent'anni fa l’animaletto, giunto in forcella zampettando accanto alla guida e alla cliente e lasciato in sicurezza su un terrazzino, fu testimone della salita, cosicché uno dei due alpinisti volle battezzare la torre in suo onore.

19 nov 2020

Gli inglesi e e la scoperta delle Dolomiti

Ah, questi inglesi! Se non avessero passato la Manica a metà dell'800 in direzione delle Alpi, forse sarebbe arrivato qualcun altro; comunque, il grande merito della rivelazione dei Monti Pallidi, delle loro valli e dei paesi che le popolano, appartiene senza dubbio ad inglesi, scozzesi e irlandesi.
Tra i primi venuti a curiosare, dopo Gilbert e Churchill, ci fu una donna, Amelia Edwards, una viaggiatrice che però non scalò le cime. Nel 1857, John Ball si aggiudicò il Pelmo e nel 1860 la Marmolada di Rocca, e poi via via, in ordine alfabrico : Amery, Broome e Corning, Freshfield, Heath, Phillimore e Raynor, Lovelace, Tomasson, Tuckett, Wall, Withwell, Wyatt,  Tomasson e tanti altri... Fino alla Grande Guerra, perché dopo di essa il mondo cambiò faccia, forestieri ne vennero ancora, ma lo spirito di conquista ormai si era affievolito e cedette il posto ad altri alpinismi. 
I britannici hanno lasciato traccia ovunque nelle Dolomiti, dal Brenta alle Pale, e qui da noi in quasi tutti i gruppi montuosi. Nel 1890 Jones e poi Cockburn salirono, con la giovane guida Constantini, due cime del misconosciuto Pomagagnon, la Croda Longes e la Croda del Pomagagnon. 
Grandi cose fecero poi a fine secolo Phillimore e Raynor sulle Pale, sul Catinaccio, in Tofana, Croda da Lago, Cristallo, Pomagagnon, Antelao, Tre Cime. I due lasciarono i loro nomi a diverse vette e vie: ricordiamo per curiosità il piccolo Ago Inglese, lungo l’accesso alla via normale della Croda da Lago (forse salito da Phillimore, Dimai e Verzi nel 1899, tornando dalla prima del Campanile Federa). 
Il Pomagagnon da Cortina (foto I.D.F.)
La quinta delle 5 Torri, l’Inglese, fu conquistata da Wyatt con Menardi e Maioni nel 1901; in Tofana ci sono due Vie Inglesi, ma la più nota è quella sulla parete SO della Tofana di Mezzo (Phillimore e  Raynor con Dimai e Colli, 1897); sulla Costa del Bartoldo c’è il "Passo Phillimore" sulla parete sud, superata dagli indomabili Phillimore e Raynor con Dimai, 1899; sul Piz Popena c’è una via Inglese sullo spigolo sud, opera di Phillimore, Raynor, Dimai, Innerkofler e Pompanin del 1898, e così via. Altri ne hanno già scritto e non la vogliamo fare troppo lunga: resta il fatto che, per le Dolomiti, le cordate venute da oltre Manica furono fondamentali e indimenticate. 

15 nov 2020

Quattro passi sul Lago Bianco

«Lago Bianco»: quanti possono affermare di conoscere quel luogo a Cortina? Eppure si discosta solo di pochi metri dalla strada statale e da un sentiero assai trafficato; soltanto che, non avendo i requisiti del lago da cartolina, è del tutto ignorato.
Iniziando dal nome, che è particolare poiché lo specchio lacustre così denominato... in realtà non esiste più, ormai da molto tempo.
Ci troviamo a circa 1500 m., sulla destra orografica della SS 51 a sud della sella di Cimabanche e all’imbocco della carrareccia che sale verso Lerosa. Secondo de Zanna-Berti, il lago fu battezzato «Bianco» per il limo che ne copriva il fondo e affiora ancora a tratti, dove la superficie è meno colonizzata da una caratteristica, magra vegetazione, forse oggetto di analisi da parte di chi ne sa più di noi.
Il Lago Bianco con il Knollkopf (foto E.M.)
Nella Grande Guerra ebbe un certo rilievo, poiché nei suoi pressi prendeva avvio una teleferica austriaca che saliva verso la sovrastante Punta Ovest del Forame de Fora. Inesorabilmente sommerso negli anni dalle colate detritiche scivolate dalla conoide di Cimabanche, oggi il lago si è convertito nella magra distesa che ci accompagna passando in automobile, e probabilmente pochi lo notano.
Sul lato a monte, tra la vegetazione il Parco Naturale delle Dolomiti d’Ampezzo ha allestito una mangiatoia per ungulati che, a giudicare dalle numerose peste riscontrate nei dintorni, certamente non mancano di visitarla.
Negli anni che furono, ovviamente distratti da obiettivi di maggior pregio, non avevamo mai considerato l’idea di impiegare pochi minuti per mettere i piedi sulla morbida superficie del lago che non c’è più; nella zona è il terzo, dopo il Lago Negro e quello di Rufiedo, entrambi posti sul lato opposto della SS 51 ed ormai quasi fusi tra loro.
In verità al Lago Bianco non ci sarebbe tanto da vedere, se non le erbe e gli arbusti che coprono la piana, una pozza dal fondo melmoso e giallastro che ricorda certi fanghi termali, e la visuale, aperta da un lato sugli scoscesi dirupi del Forame de Fora e dall’altro sul Col Rotondo dei Canopi, il Knollkopf dei pusteresi.
Però è un luogo singolare, tant'è che in un pomeriggio d'estate, passando da quelle parti, ci siamo concessi volentieri la visita di un angolo senza fama del nostro territorio, che non ci ha deluso.

11 nov 2020

Pfalzgauhütte, il rifugio dolomitico costruito quattro volte

L’8 agosto 1891, ai piedi del circo da cui escono le acque che alimentano il lago del Sorapis, scavato nella roccia e privo di emissari superficiali, attraversano poi sottoterra la soglia rocciosa del ripiano glaciale e confluiscono nella cascata del Pis (per questo, il soprastante massiccio roccioso si chiama «Sora-Pìs» e non «Soràpis»!) apriva le porte la Pfalzgauhütte. 
Terzo rifugio alpino d’Ampezzo dopo il Sachsendank ed il Tofana, posto a 1928 m. sul confine tra il Tirolo e l’Italia, il rifugio era stato promosso dal Club Alpino Tedesco-Austriaco di Pfalzgau, una cittadina del medio Reno. Vi si saliva, e ancora vi si sale, per almeno tre sentieri: da Federavecchia di Auronzo inerpicandosi a fianco della cascata; dal Passo Tre Croci, scavalcando lo zoccolo delle Cime del Lòudo con un tracciato facilitato in alcuni punti; dalle Crepedèles (oggi detti Tondi di Faloria), attraversando il Ciadin del Lòudo lungo un sentiero aperto nel 1903, munito anch'esso di qualche fune metallica. 
Il primo edificio non ebbe però fortuna. Trovandosi in una conca ombrosa e soggetta a grossi accumuli di neve (giusto un mese fa, l'11 ottobre, lassù se ne misuravano addirittura 65 centimetri!), nella primavera 1895 fu distrutto da una valanga, e subito spostato un centinaio di metri più a nord, in una posizione riparata. 
Il rifugio Pfalzgau,
con la Zesta sullo sfondo (archivio E.M.)
 
Nel 1913 però la capanna era di nuovo inagibile. Dopo la guerra fu assegnata alla Sezione di Venezia del Cai, che la ricostruì intitolandola a Cesare Luigi Luzzatti e la riaprì il 22 giugno 1924. Sulla parete della 2^ Sorella, proprio alle sue spalle, il 26/27 agosto 1929 i triestini Emilio Comici e Giordano Bruno Fabjan aprirono la prima via italiana di VI grado nelle Dolomiti. 
Ribattezzato nel 1939 Rifugio Sorapis in base alle leggi razziali, il Luzzatti non subì danni nel 2° conflitto mondiale e poté così riaprire nel 1947; il 18-19 ottobre 1959, però, fu vittima dell’ennesimo, inaspettato incendio. Rifabbricato per la quarta volta e aperto il 18 settembre 1966, contemporaneamente alle vie attrezzate che permettono di fare il giro del gruppo del Sorapis, è stato dedicato al veneziano Alfonso Vandelli.
Storica base per salire la Punta del Sorapis per l’antica via Grohmann, o per la più difficile via Müller, entrambe cadute nel dimenticatoio, da molti anni il rifugio è gestito da famiglie auronzane. 

1 nov 2020

Il segreto della Cima Cason de Formin

Negli anni Ottanta, percorremmo più volte la classica via aperta nel 1970 da Franz Dallago e Dino Constantini sul diedro O della Cima Cason di Formin, snella propaggine della Croda da Lago.

La prima salita si verificò a Ferragosto del 1982. Seguendo la relazione della guida “Berti”, trovammo poi subito il "segreto" per scendere dalla vetta: un sinuoso foro tra due massi, in cui ci si doveva infilare senza zaino e quasi trattenendo il respiro; era l'unica possibilità per schivare una zona di roccia friabile e malsicura.

Cima Cason de Formin dalla valle omonima
  (cartolina anni '30, raccolta E.M.)

Sfruttammo tranquillamente il foro dopo altre salite, fino al 1987. Quella volta ero con A.: ma, al momento di scendere… il foro non si trovò più! I massi che lo formavano, dopo secoli erano crollati uno sull’altro, e per risolvere la situazione si doveva uscire e affrontare una paretina esposta, più ripida di tutto il diedro sottostante.

Nulla di strano sulle montagne, dove fin dall'inizio dei tempi la morfologia cambia di continuo: una sorpresa però per noi, che ci eravamo abituati a gattonare ogni volta in un foro molto stretto, ma protetto e comodo. Sicuro non lo era: ma noi questo non lo avevamo previsto.

Sachsendank 1883 Nuvolau 2023. 140 anni di storia e memoria

Ernesto Majoni e Roberto Vecellio, Sachsendank 1883 Nuvolau 2023. 140 anni di storia e memoria , pp. 96 con foto b/n e a colori, Cai Cortina...