24 dic 2021

"Storia di un irrequieto" di Wolfgang Strobl: esce la nuova pubblicazione del Cai Cortina

Fino ad oggi quanti conoscevano l’“irrequieto” alpinista, giornalista e scrittore austriaco Richard Issler (1844-1896), figura della storia dolomitica dell’800 di cui Wolfgang Strobl ha rivisitato nel suo nuovo libro la vita e le opere? Non tanti.
Eppure, chi frequenta le Dolomiti Ampezzane avrà quasi certamente percorso la ferrata a pochi passi dal rifugio Averau, che completa il tour Averau-Nuvolau e raggiunge una cima che, dall’alto dei suoi 2647 m., offre un panorama a 360° sulle Dolomiti.
L'Averau, cima cui si lega il nome di Issler

La via, che supera il liscio canalone E dell’Averau, segue la normale della prima cima conquistata nel gruppo del Nuvolau, ad opera di Richard Issler che giunse in vetta il 10 agosto 1874, guidato da Santo Siorpaes.
Chi compisse la discesa scialpinistica dall'Antelao, poi, seguirebbe anch’egli le orme di Issler, che fu il secondo a toccare il Re delle Dolomiti d’inverno. Era il 5 febbraio 1882, e lo accompagnava un’altra guida di Cortina, Alessandro Lacedelli; la “memorabile gita”, compiuta per rivalsa patriottica nei confronti del Tenente Pietro Paoletti, che il 15 gennaio si era aggiudicato la prima invernale dell’Antelao col sanvitese Luigi Cesaletti, fu però l'ultima del viennese. Al ritorno Issler, “essendosi fatto tirare per qualche tratto su di una slitta, ebbe la triste sorte di congelarsi l’estremità delle dita d’ambo i piedi” e dovette lasciare le grandi montagne.
Chi conosce un po’ di storia ampezzana, potrebbe sapere che nel 1882 l’austriaco costituì, con altri 48 soci, la Sektion Ampezzo del D.Ö.A.V., divenuta nel 1920 Sezione del Cai di Cortina d’Ampezzo, e donò al sodalizio 200 opere d’argomento montano, 
Ancora: pochi sapranno che Issler fu uno dei sei volontari che nell'agosto 1883 si calarono dal Nuvolau verso il Masarè de l’Avoi per raccogliere le spoglie della guida Giuseppe Ghedina, caduta il giorno prima durante la festa d’apertura del primo rifugio ampezzano...
Basterebbero questi elementi a sancire il rilievo per la conca del giornalista, la cui figura oggi viene ben illuminata da "Storia di un irrequieto", studio già edito in tedesco su “Der Schlern” nel 2016 rivisto, tradotto e pubblicato dal Cai Cortina in un volume di 110 pagine riccamente illustrato.
Di Issler, come detto, fino a ora nelle fonti e nella memoria orale circolavano scarsi riferimenti, riservati perlopiù agli addetti ai lavori; per merito di questo libro edito a Cortina, sarà ora possibile inquadrare il personaggio più a fondo.
Strobl, storico di Dobbiaco che studia le vicende del turismo dolomitico, ha preso a cuore la figura di un uomo che si guadagnò un vivace spazio nella storia dolomitica. Il pubblicista e scrittore venne spesso tra i Monti Pallidi, che esplorò a dovere nutrendo grande affetto per Ampezzo e il Cadore, dove salì le maggiori cime. Oltre che precursore dell’alpinismo invernale, fu un filantropo e un fotografo, ma la sua attività restò sempre un po’ oscurata da quella, comunque più imponente, del conterraneo Paul Grohmann.
Benvenuto dunque a questo saggio, documentato e preciso com’è nello stile dell’autore, che padroneggia con profitto gli archivi e le biblioteche sia tedesche che italiane e ha scoperto numerose chicche storiche sul turismo dolomitico.
Grazie al Cai Cortina, che ha lodevolmente deciso di arricchire la conoscenza di un uomo legato ad Ampezzo e alle sue crode con questo originale volume, curato da chi scrive e da Roberto Vecellio e in uscita nel gennaio 2022, in coincidenza col 140° di fondazione della Sezione. Da parte nostra è lecito auspicare che i lettori si godano la storia dell’“irrequieto” viennese, un pioniere al quale ora si può conferire il ruolo che gli spetta, nella nascita e dello sviluppo del turismo in Dolomiti.

7 dic 2021

Nuova guida di ViviDolomiti allo scialpinismo, freeride e ciaspole a Cortina, Tre Cime, Cadini e Dolomiti d’Ampezzo,

Per chi non s'intende di sci, non è facile recensire un libro di discese sulla neve, ma lo si vuole fare qui ugualmente, perché il libro è molto ben fatto. Presentiamo quindi volentieri la guida che Francesco Vascellari, dinamico editore bellunese titolare di "Vividolomiti", dedica allo «Scialpinismo Freeride e Ciaspole a Cortina Tre Cime Cadini e Dolomiti d’Ampezzo. Cortina e Misurina».
La copertina della nuova guida
Ponderoso e ricco d'immagini, il libro descrive 200 itinerari, a vari livelli, di sci alpinismo, sci ripido e con le racchette da neve. 21 di essi si svolgono nel gruppo della Croda da Lago-Cernèra, 20 tra Fanis e Lagazuoi, 5 nel'area della Tofana, 21 intorno alla Croda Rossa, 24 tra il Cristallo e il Pomagagnon, 7 in Faloria-Marcóira, nel settore ampezzano del gruppo del Sorapìs, 30 tra le Tre Cime di Lavaredo ed i Cadini di Misurina: tirando le somme, così non si arriva a 200, solo perché molte discese sono doppiate o triplicate, e l’autore descrive e numera anche circa 70 varianti.
Una parte degli itinerari è già nota al popolo degli sciatori, che esordirono nelle Dolomiti d'Ampezzo già nel primo decennio del secolo XX, salendo sulla Croda del Béco, sulle Lavinòres e su altre cime, ma vi sono anche alcune nuove e difficili scoperte. Da profani del fuoripista, ci asteniamo dal formulare giudizi di merito e classifiche delle scelte presentate dall'autore in questa guida, peraltro spesso percorribili e gratificanti anche in veste estiva.
Il libro è organizzato in schede, ognuna con indicazioni esaurienti e il più aggiornate possibile per uscire dalle piste battute avventurandosi tra neve, ghiaccio, roccia, sole e silenzi sempre con un occhio ai rischi dell’ambiente invernale, che va avvicinato con capacità e attenzione, se non col sussidio di esperti.
Sfogliando l'elenco degli itinerari proposti da Vascellari, ottimo scialpinista con varie prime all'attivo, e augurando a questa guida la massima diffusione ed apprezzamento tanto più dall’inverno 2021/22, che segue un periodo di blocco sportivo forzato e doloroso, fa piacere scoprire che la discesa n. 96.5 riguarda la «Pala de Marco», un ripido diedro-canale sul versante del Faloria rivolto a Cortina.
Il toponimo fu proposto da chi scrive su questo sito, il 24.11.17: Marco Schiavon, autore della prima e seconda (?) discesa in solitaria della Pala nell’inverno 1976/77, fu molto gratificato dalla dedica che gli avevamo fatto ricordando la sua avventura giovanile. Purtroppo l'amico ci ha lasciato due anni più tardi, dopo una lunga malattia, e ci piace ricordarlo sempre lassù sulla sua Pala.

28 nov 2021

Rifugio Dibona, esempio di un turismo coraggioso e responsabile

Il rifugio Angelo Dibona, a 2083 metri di quota, ha deciso di interrompere lo storico servizio motoslitte. “Con l’arrivo del Covid è avvenuta in me una maturazione che ho deciso di portare anche nell’ambiente che gestisco. Desidero offrire agli amanti della montagna un luogo in cui trovare natura, tranquillità e silenzio. La pandemia ci ha fatti riflettere. Credo che dopo un periodo così si possa solo scegliere tra due direzioni opposte in cui andare, e noi abbiamo deciso di fare un passo indietro e prendere quella che guarda alla natura, alla tranquillità e al silenzio”. Così racconta a il Dolomiti.it Nicola Recafina, gestore insieme al padre Riccardo del rifugio Dibona ai piedi della maestosa Tofana di Rozes, sulla decisione di dire basta al servizio motoslitte.
Un servizio storico per il rifugio, si potrebbe dire attivo sin dagli anni ’50, quando i nonni Mario Recafina e Antonia Dibona hanno costruito il rifugio in onore del famoso alpinista e guida alpina ampezzana, Angelo Dibona.
Verso il rifugio, sotto la Tofana di Rozes

Il rifugio stava diventando un parco divertimenti”, il Dibona dice basta al servizio motoslitte. “Vogliamo offrire un luogo in cui trovare natura e silenzio. L’uso delle motoslitte aveva avuto un boom dagli anni ’80, e abbiamo continuato a tenere attivo il servizio fino a prima del Covid. Oggi però abbiamo deciso di dire basta prendendo una decisione che crediamo riavvicinerà la nostra struttura principalmente ad escursionisti ed alpinisti”.
Senza il servizio motoslitte, infatti, il rifugio sarà raggiungibile solo a piedi, con le ciaspole o con le pelli di foca. “E’ da anni che sentivo di dover cambiare qualcosa e avevo la pulce nell’orecchio - continua - e con l’arrivo del Covid è avvenuta in me una maturazione che ho deciso di portare anche nell’ambiente che gestisco. Desidero offrire agli amanti della montagna un luogo in cui trovare natura, tranquillità e silenzio”.
Il servizio era molto utilizzato, specialmente per la cena durante i periodi festivi ed era scelto da molti turisti in quanto permetteva di raggiungere il rifugio in soli 15 minuti. Una decisione che quindi non sarà presa di buon grado proprio da tutti. “Alcuni me ne hanno già dette un bel po’”, ci racconta scherzando. “Ma ci sta”.
“Utilizzavamo tre motoslitte, però il tutto stava prendendo una piega che non mi portava nulla e il rifugio stava diventando una specie di parco divertimenti. Oltretutto la gestione dei mezzi era anche pericolosa”.
Un’importante decisione all’apparenza semplice, ma invece molto coraggiosa, che mette in luce una genuina voglia di mettere la natura e la salubrità dell’ambiente sopra qualunque altro fine. “Sono veramente carico perché dietro a questa scelta c’è un’idea abbastanza precisa. Credo che vedremo un po’ cambiare il nostro giro di turisti”.
“L’esperienza della pandemia poteva portarci a prendere due decisioni totalmente opposte. O compravamo altre dieci motoslitte, oppure facevamo un passo indietro".
E conclude: "Il nostro rifugio era diventato una via di mezzo tra più cose, e per questo era arrivato il momento di prendere una decisione. Vi aspettiamo".
(Lucia Brunello, da “Il Dolomiti”, 25.11.2021)

19 nov 2021

Angelo Gaspari, guida alpina sfortunata

Quest'anno, tra gli anniversari legati all'alpinismo dolomitico, ce n'è uno, sicuramente secondario nella storia, ma che a nostro giudizio merita un piccolo cenno, se non altro per la sua singolarità. Il 1° luglio 1865, nel villaggio di Ciae-Chiave a Cortina, che si stende ai piedi del Pomagagnón, vedeva la luce un uomo che avrebbe lasciato una pur labile traccia nella storia locale, se non altro per il suo sfortunato destino. Si trattava della prima guida alpina locale che perì nell'esercizio del proprio mestiere.
Quell'uomo si chiamava Angelo Gaspari, "Moròto" nell'antico soprannome di famiglia. Come tanti altri valligiani, aveva una bottega di falegname; a trent'anni la Sezione Ampezzo del Club Alpino Tedesco-Austriaco, attiva dal 1882, gli aveva consentito di esercitare anche la professione di guida alpina e come tale, con altri ventidue compaesani, Gaspari figura nella "Tariffa per le guide di montagna del Distretto Giudiziario d'Ampezzo", datata 26.4.1898.
In quindici anni di attività, il "Moròto" fu una guida rinomata, ed a lui si lega anche un paio di prime salite. Nel 1899, con il collega Angelo Maioni "Bociastorta" e le non meglio identificate sorelle Schmitt, salì il camino che taglia verticalmente sul lato sud la Gusèla del Nuvolau, sopra i pascoli di Giau. Di quel ripido camino, che Antonio Berti, nella guida delle Dolomiti Orientali, valutò di V, di sicuro avranno un ricordo Enrico e Federico, che circa ottant'anni dopo ne furono tra i pochi ripetitori. Il 26 agosto 1911, Gaspari scoprì con E. Heimann anche una utile variante di IV- alla via normale sull'avancorpo sud della Torre dei Sabbioni nelle Marmarole, ancora percorsa da chi sale la Torre.
Angelo Gaspari e Baldassarre Verzi in parete

Due giorni dopo quest'ultima, il 28 agosto 1911, il povero Angelo, nell'ardito tentativo di trattenere il cliente che aveva perso l'appiglio sull'esposta “Lasta” della via normale del Monte Cristallo, precipitò ferendosi a morte.
La moglie Maria e il figlio settenne Giovanni, che diverrà un famoso imprenditore nel campo dello sci, furono i primi a Cortina a godere delle provvidenze economiche della “Cassa di sussidio per malattie e infortuni”, in breve “Cassa Schmidt” dal nome del tedesco Anton Schmidt, che ne aveva suggerito l'istituzione nel 1896 e ne fu il primo munifico sostenitore.
Una curiosità: il 6 settembre 1981, alcuni soci del Cai Cortina salirono sul Piz Popena a recuperare il vetusto libretto di vetta presente lassù fin dal 1910 e firmato da nomi illustri, Antonio Dimai, Angelo Dibona, Emilio Comici, Ettore Castiglioni, Enzo Cozzolino. Sotto l'ometto della cima, giaceva una scatola con alcuni biglietti di visita: uno di essi era stato lasciato nel 1906 da Angelo Gaspari "Moròto" che - forse anche per imitare le guide valdostane - usava il francese per presentarsi come “Ange Gaspari, guide du Club Alpin”.

5 nov 2021

A proposito del termine alpinistico "apritore"

Nel suo interessante studio sulle “Parole antiche”, 4° volume della serie “Le parole dell’italiano” (R.C.S., Milano 2020), Vittorio Coletti - professore emerito di Storia della lingua italiana - scrive che tra “i nomi in -tore, anche se i mestieri e le attività si sono col tempo moltiplicati […], e quindi i nomi aumentati, molti si sono perduti, perché la lingua antica ne aveva prodotto anche per designare gesti occasionali o persone che non abitualmente ma solo in una data occasione facevano quell'operazione o quel lavoro o quel gesto.
Secondo il docente, accanto ad altri termini, oggi sarebbe uscito dall'uso anche “apritore”, un vocabolo già presente nel Decamerone di Boccaccio. Limitandosi all’uso che ne è diffuso nell’ambiente dell'alpinismo, forse l’affermazione si potrebbe correggere: indubbiamente il sostantivo risulta ancora vitale, seppure percepito in modo diverso, e identifica “chi apre, chioda, realizza una via alpinistica.”
La guida Ferruccio Svaluto Moreolo (1959-2021),
fecondo apritore di vie sulle Dolomiti
Quindi, almeno in montagna, “apritore” non sembra un termine perduto soltanto perché “indica non un’attività stabile, un mestiere, ma un’azione episodica…” Penso agli alpinisti che hanno aperto il maggior quantitativo di vie in roccia: ieri, come Severino Casara (129 percorsi nelle Dolomiti, in 51 anni di attività), Ettore Castiglioni (123, in 20 anni), Gabriele Franceschini (116, in 29 anni), e oggi, come Eugenio Cipriani (oltre 500 vie dal 1978) e Roberto Mazzilis (anch’egli più di 500 dal 1978, quasi solo sulle montagne Carniche e Giulie, e tuttora attivo). Non dimentichiamo poi coloro che chiodano e liberano tiri in falesia, aprono percorsi su ghiaccio o su misto, sciano lungo nuove linee su pareti ripide…
Per quanto non vada legato ad una vera e propria professione, il termine ”apritore” sembra quindi godere ancora di una certa vitalità.

23 ott 2021

23 ottobre 1977: prima volta sullo spigolo del Sas de Stria

Sono stato un frequentatore dilettante, anche più volte in una stagione, dello spigolo SE del Sas de Stria, il profilo della cima che domina il Passo Falzarego e si presenta elegante e snello soprattutto se visto dalla strada che scende in Agordino.
Aperta in un anno povero di scoperte (il 1939) dai vicentini Colbertaldo e Pezzotti, nelle prime cordate la via segue fedelmente il tagliente sud della rocca, deviando in alto verso est per infilare un caratteristico cunicolo che porta ad una cengetta, una cordata sotto la vetta.
Facilitata da ancoraggi fissi, la via Colbertaldo-Pezzotti è nota, soprattutto ai corsi roccia e a chi lassù inizia o termina l’attività stagionale. L’attacco dista meno di mezz'ora di cammino dalla strada, e il ritorno si svolge lungo il versante NO, su un sentiero e trincee di guerra segnalate. Dal 23.X.1977, quando vi festeggiai in anticipo il mio diciannovesimo compleanno, e dal 29.X.1978, giorno in cui onorai sempre lassù il ventesimo - con una delle ultime sigarette gustate sulle cime - ho salito lo spigolo molte volte, apprezzandone sempre le peculiarità alpinistiche e paesaggistiche e godendo l'ascensione, divertente ma mai banale e inserita in un contesto di prim’ordine.
Ho scritto altrove dell’ultima visita, avvenuta in una fresca giornata del giugno 1993; rivedo ancora la faccia perplessa dell'amico avvocato, uscito in cima mugugnando che, per lui, giungere dopo una scalata su una vetta “facile”, dove anche i più scarsi arrivano in un’oretta di cammino, magari fanno merenda schiamazzando e lasciano anche cartacce, non aveva tanto sapore.
Sas de Stria dal Falzarego, col profilo
dello spigolo a sinistra (foto E.M.)
Vorrei però rievocare il flash di un'altra salita dei primi anni.
7.VII.1982: non dimentico tanto facilmente quella giornata, perché rimettevo per la prima volta piede sulla roccia dopo sei mesi dall’incidente in cui ruppi un legamento del ginocchio e portai poi il gesso per oltre due mesi.
Salii lo spigolo con mio fratello, issandomi praticamente di braccia in alcuni tratti, perché la gamba destra era fiacca e il ginocchio faticava a piegarsi; la soddisfazione però fu grande, ed ebbi la riprova che a ventiquattr’anni nemmeno compiuti potevo fare ancora q1uesto e altro.

12 ott 2021

Le due selvatiche cime del Pezovico (Gruppo del Pomagagnon)

Pilastro angolare del crinale dolomitico del Pomagagnon, disertato e severo angolo dei monti d'Ampezzo, il Pezovico – dal nome tanto antico quanto indecifrabile - domina dall'alto della modesta quota di 1933 m. la spianata di Fiames e l'ex sede della ferrovia Cortina-Dobbiaco.
Fiancheggiato da un risalto tondeggiante che curiosamente non ha ancora un oronimo personale, supera l'altro in altezza di 81 m. e non sarebbe difficile da raggiungere da Forcella Alta se questa, incisione di cresta senza importanza, non fosse complicata da avvicinare, per il generale decadimento del sentiero di guerra che vi sale, durante la 1^ guerra mondiale il Pezovico fu rinforzato con opere difensive dai soldati italiani, e poi scavato alla base da due gallerie ferroviarie.
Ignorato da Antonio Berti nella guida "Dolomiti Orientali" e liquidato come poco importante nella guidina Rother sul Cristallo-Pomagagnon dei coniugi J. e A. Schmidt (1981), il Pezovico è stato brevemente considerato nel libro sul gruppo del Cristallo di Luca Visentini (1996); l'autore però, pur preciso nelle sue descrizioni, non fornì alcun dettaglio della salita, che non aveva compiuto, e si fondò su quanto riferitogli dallo scrivente, che sulla cima salì due volte.
​Rileggendo oggi la simpatica, in parte utile, guida Rother nel 40° anniversario dalla pubblicazione, e confrontandola con alcune immagini del Pezovico, scattate nello scorso settembre dai pressi della stazioncina di Fiames, ci ha incuriosito il paragrafo 43. Citando la parete S.E. del monte, che origina da Forcella Bassa, esso le dedicava poche righe, calcolandone l’altezza in 350 m. e affermando che, all’epoca, non risultava ancora salita.
Le due cime del Pezovico (foto I.D.F.)
​Dev’essere una delle poche pareti a Cortina di una certa prestanza a non vantare, almeno fino a quarant’anni fa, alcuna via, ma certamente una ragione ci sarà stata! L'unica via aperta fino ad oggi sul Pezovico risale la parete S.O., che si affaccia sulla Statale d'Alemagna. Tentata da Casara negli anni '40 e poi da due giovani Scoiattoli di Cortina, fu infine salita nel febbraio 1992 da Pozza e Petillo, che dormirono presso la cima e calarono quindi a valle verso nord. Per ora, sul versante di cui scriviamo, abbiamo soltanto la notizia privata di una risalita dell'ostico canalone che divide Quota 1933 da quella innominata, che da tempo abbiamo battezzato privatamente Quota 2014, opera in solitaria del giovane Albert Brizio, compiuta l’ultimo giorno d’estate del 1986.

30 set 2021

Autunno sul Col Rotondo dei Canopi

La cima che suggeriamo oggi, il Col Rotondo dei Canopi (Knollkopf in tedesco, in Comune di Dobbiaco, 2204 m), fu descritta da Paul Grohmann nella sua guida alle escursioni dolomitiche, già nel 1877: “Il Col Rotondo si innalza fra le valli dei Canopi e di Specie. Non è molto alto, ma poiché si trova isolato, offre una ottima vista circolare. La strada è buona”. Sicuramente qualcuno lo saliva però molto prima: la cima è un crestone allungato e coperto di mughi, che non si eleva di molto dall'altopiano di Pratopiazza, forse in passato ospitava anche greggi ed è accessibile senza difficoltà. Il Col riveste interesse per la salita non troppo faticosa, e per il panorama che apre su numerosi monti dolomitici: in primis sul Cristallo e la Croda Rossa, ma anche su gran parte delle cime d'Ampezzo e della Pusteria.
La miglior soluzione (per i pigri!) per salirlo è giungere a Pratopiazza in macchina o navetta, riducendo la salita a soli 250 m di dislivello. Se si ama camminare, invece, si parte dall'ex cantoniera a 1 km dal Passo Cimabanche, verso Dobbiaco. Qui inizia il sentiero 18, che all´imbocco della Val dei Canopi-Knappenfusstal confluisce in un altro proveniente dal Passo. Casomai possiamo seguire anche questo sentiero-stradina, che inizia sul valico di fronte allo Chalet. Ci inoltriamo quindi nella valle ai piedi dei dirupi del Col Rotondo, e subito c'immergiamo nella storia; stiamo ricalcando la via usata fin dal Medioevo dai minatori pusteresi, per scendere in Ampezzo e recarsi al lavoro nelle miniere del Col Piombin e del Fursil.
Circa a metà valle, in vista di una cascata, valichiamo il rio, deviamo a destra e con alcune serpentine risaliamo un costone. Se il sentiero fosse innevato o gelato, occorre fare attenzione, perché per un tratto si passa a picco sul torrente. Finita la salita, il sentiero diviene una stradina pianeggiante. La cima sta proprio sopra di noi, sulla destra: ad un ponte, pieghiamo a destra e oltre un prato traversiamo un po' al meglio nel bosco e su ghiaie, incrociando una mulattiera di guerra austriaca, marcata ma non segnalata e senza numero.
In cima, in una fresca domenica d'autunno (foto E.M.)
Seguendola, risaliamo con un largo giro il costone verso Pratopiazza, uscendo sul punto più elevato della cresta, dove c'è un ometto, una croce e resti di postazioni. Per tornare a valle, dal punto più a nord della cresta, che si raggiunge per tracce, si potrebbe scendere più avventurosamente su terreno ripido, tenendoci lungo una recinzione che divide i pascoli di Dobbiaco da quelli di Braies e giungendo sulla stradina toccata in salita.
Il Col Rotondo offre una gita semplice, in un bell'ambiente silvo-pastorale. Pur non essendo molto lontano da due frequentati rifugi e una malga, non è eccessivamente noto e battuto. Lassù c'è spazio per riposare, curiosare, fotografare scorci più o meno famosi: si tratta, insomma, di una gita inedita, remunerativa specialmente in autunno.

19 set 2021

Cima d'Ambrizzola, il fascino della storia

La salita nel luglio scorso, da parte di tre amici, di una vetta dolomitica tra le meno battute, la Cima d’Ambrizzola (Pónta d'Anbrizòra, nel nome ampezzano), dà lo spunto per queste note storico-geografiche, con cui desidero rivisitare la montagna.
La Cima è la sommità più elevata del piccolo gruppo della Croda da Lago-Cernera; toccando la quota di 2715 metri, surclassa di soli 6 metri la Croda da Lago vera e propria, la vetta più famosa del gruppo, che fu conquistata soltanto per terza dopo il Becco di Mezzodì e la nostra, nel 1884. Presenta due punte, la Nord e la Sud, unite da una piccola cresta, e la sua storia si è concentrata nell’arco di circa novant’anni. Primi a scalarla dal lato est, il 23.8.1878, furono i cugini e giovani guide Arcangelo e Pietro Dimai Deo, che accompagnavano P. Fröschels e F. Silberstein; i secondi salitori dell'itinerario, il 4.8.1881, furono le guide Santo Siorpaes Salvador e Giuseppe Ghedina Tomasc, con il cliente J. Stafford Anderson.
Becco di Mezzodì, Cima d'Ambrizzola e Croda da Lago,
dalla Rocchetta di Prendera (foto E.M.)

La cima fu poi visitata da ovest, prima da Leone Sinigaglia e Orazio de Falkner con Zaccaria Pompanin de Radeschi e Giuseppe Colli Pàor (Punta Nord, 1895) e poi da Berti e Rossi (Punta Sud, 1904); seguì R. Scheid, che nel 1905 superò in solitaria la gola sud-est. Nell’estate 1913 Tarra e Cappellari giunsero in vetta dalla spaccatura che separa la Cima dalla prospiciente Punta Adi; pochi giorni dopo la guida Bortolo Barbaria Zuchin portò l'Accademico Lusy sulla parete sud, dove fu toccato il V grado. Nel 1930 l’austriaco Peterka salì da solo da sud-ovest; due anni dopo Ghelli, Armani, Terschak, Degregorio e Ghiglione scalarono l’impegnativa parete nord-ovest della Punta Nord; nel 1933 Brunhuber e Coletti tornarono sulla sud, dove trovarono passaggi di VI. L’11 settembre 1966, infine, gli Scoiattoli Franz Dallago e Armando Menardi, ripetendo la via di Ghelli e compagni, aprirono una variante fino al VI grado, che ha messo praticamente la parola fine alla storia alpinistica della Cima, oggi quasi dimenticata e salita molto di rado. Una nota curiosa: la guida di Cortina Enrico Maioni, tuttora in attività, ricorda che la normale della Cima fu la prima via compiuta da professionista, col cliente iberico Manuel Bultó. Era l’estate del 1984.

8 set 2021

Torre Lagazuoi, 75 anni fa

Penso, con un po' di soddisfazione, di essere stato uno dei non moltissimi salitori di una cima che, all’epoca, trovai molto gratificante.
Sto parlando della Torre Lagazuoi, sui monti di Fanes, sulla quale mi portò Enrico in un pomeriggio di luglio del lontano 1981, per la via degli Scoiattoli. La via, aperta da Ettore Costantini, Luigi Ghedina, Ugo Samaja e Mario Astaldi esattamente tre quarti di secolo fa, l’8.9.1946, si sviluppa per quattro lunghezze di roccia solida, anche se sporca.
Foto S. Caldini
Ricordo che sull’itinerario, lungo una parete e un marcato spigolo che ci offrirono una giornata divertente, trovammo pochi, ma buoni chiodi, sicuramente risalenti ai primi salitori. La via ci piacque, ma soprattutto non ci lasciò indifferenti l’aver toccato la sommità di quella guglia, evidente per chi frequenta la zona del Lagazuoi, eppure non troppo calpestata.
Sulla cima ci accolse una piccola piramide di sassi coperta di licheni ed “antica”, allora, di trentacinque anni: per la discesa, ignorando le raccomandazioni generiche della guida “Berti”, attrezzammo alcune calate a corda doppia, infilandoci in un canalone scosceso e giungendo sani e salvi a casa quasi al buio.
Mi pare anche di ricordare che, dopo gli Scoiattoli, qualcun altro abbia tracciato una variante alla loro via, o una via nuova sullo stesso versante, dove peraltro mi pare ci sia poco spazio per scoperte. La Torre Lagazuoi rimane una delle cime che avemmo la ventura di conoscere e dove trascorremmo una bella giornata, animati dall’entusiasmo, dallo stupore e dalla voglia di fare dei nostri vent’anni.
Mi conforta rivivere quell’avventura, che fu una delle tante scoperte dei miei anni ‘80. Se anche l'avessi risalita ancora, sono certo che non avrebbe avuto lo stesso sapore.

4 set 2021

150° della prima ascnsione del Becco di Mezzodì

C’è ancora un po' di tempo, ma vale la pena anticipare che il 5 luglio 2022 cadrà una ricorrenza interessante per la storia d’Ampezzo: i 150 anni da quando due uomini salirono per primi l’inaccesso Becco di Mezzodì (Sasso di Mezzodì, nei verbali confinari di un secolo prima).
Il Becco fu la prima sommità del suggestivo gruppo della Croda da Lago, posto a sud-est della conca di Cortina, a suscitare l’interesse di qualcuno: il Capitano scozzese W.E. Utterson Kelso e Santo Siorpaés Salvadór, ardita guida alpina quarantenne che da anni andava aggiungendo al suo carnet le cime più ostiche del suo paese e non solo.
Al tempo della prima ascensione il Becco, che raggiunge i 2602 m. sul livello del mare, era 
Il Becco di Mezzodì
dal pascolo della Prensèra da Lago (foto E.M.)

condiviso senza problemi tra l’Austria-Ungheria a nord ed il Regno d’Italia a sud: da questa parte, dopo un’accurata ispezione, la guida stabilì di salire col Capitano, infilando due camini che daranno del filo da torcere ad alcuni suoi seguaci e ancora oggi costituiscono una barriera degna di rispetto.
Il punto d’appoggio per salire sul Becco, meta molto trendy almeno nel primo cinquantennio dell’alpinismo dolomitico ma oggi messa un po' in disparte perché di accesso non proprio breve, difficoltà ridotta, dolomia friabile, fu inaugurato il 2 settembre 1901, accanto all’incantevole Lago di Federa, per volontà dell’estrosa guida Giovanni Barbaria. Sul Becco si salì soltanto dal lato «italiano» fino al 1908, quando Bortolo Barbaria e Giuseppe Menardi affrontarono con due clienti e vinsero dopo un tentativo il difficile e muschioso camino che guarda il rifugio e da allora porta il nome dell'ostinato Bortolo, «Camino Barbaria».
Il centenario della conquista della cima, che fu per secoli la meridiana degli ampezzani, fu ricordato dalla Sezione del CAI con una sobria celebrazione il 30 luglio 1972. Quel giorno all’ingresso del rifugio, allora gestito dalla famiglia di Renato Siorpaés, pronipote di Santo, fu scoperta una targa in memoria del duo che si era spinto per primo su quella punta. Ci fu la Messa, poi alcuni Scoiattoli salirono la variante Costantini-Ghedina al Camino Barbaria, aperta nel 1942, e risultò una bella festa.
La ricorda un tredicenne che vi partecipò con il padre, e fin da allora era interessato alle montagne di casa e alle loro storie. Chissà se quel lontano festeggiamento si potesse rievocare?

17 ago 2021

Luigi Apollonio, guida alpina, a 43 anni dalla scomparsa

Luigi Apollonio «Longo» fu l'ultima guida alpina di Cortina a vedere la luce nel XIX secolo. Ragazzo del '99, carpentiere, soldato del Genio nella Grande Guerra, a ventisei anni ottenne dal Cai la licenza per portare turisti in montagna, che conservò poi fino agli anni ‘60.
Fratello di Pietro, guida dal 1934, fu spesso in cordata con Angelo Dibona e nel 1926 ottenne una medaglia d'argento al valor civile per uno dei primi soccorsi alpini compiuti a Cortina. 
Apollonio partecipò ad almeno cinque prime ascensioni. Nel luglio 1927 salì con il cliente Edward de Trafford l'inviolata Cima SO di Marcoira; nella stessa estate affrontò con Dibona ed Angelo Verzi la Torre Trephor, la più piccola guglia d'Averau, raggiungendola in traversata da uno spuntone vicino.
Nel luglio 1930, con Dibona e i fratelli Rinaldo ed Olga Zardini, contribuì alla prima salita assoluta della Cima Cason de Formin; il 3 settembre, con Dibona e l'americano  Paul Leroy Edwards, superò lo spigolo sud-sud-ovest della Tofana de Rozes ed infine, nel 1933, con i giovani colleghi Ignazio Dibona e Giovanni Barbaria salì lo spigolo sud-est della Croda Marcora.
Luigi Apollonio a sin,,
in Tofana de Rozes, settembre 1927

Apollonio, che era stato la guida, fra i tanti, anche dello scrittore Dino Buzzati, si spense all’improvviso il 17 agosto 1978. Abitava di fronte alla Chiesa della Difesa e di lui conservo un piccolo ricordo, risalente a due anni prima.
Per il programma radiofonico in ladino che allora conducevo, stavo raccogliendo le storie delle guide anziane ancora viventi: per questo mi ero rivolto a Celso Degasper, che in famiglia conoscevamo. Una sera d’autunno, con l'amico Cesare, registrammo l’intervista al disinvolto Degasper: le due domande iniziali però riempirono l’intera cassettina, esaurendone lo spazio e lasciando senza risposta le altre dieci che avevo preparato.
L'intervista fu piuttosto apprezzata dagli ascoltatori, e qualche giorno dopo, però, incontrai i coniugi Apollonio. La consorte di Luigi, Adelina Zangiacomi «Spazacamìna», si dimostrò un po' seccata nei miei riguardi e, mentre lui ci guardava sornione, disse «Anche il mio Ijùco (Luigino, n.d.a.) era una buona guida: mi ha portato pure sul Gran Paradiso!», sottintendendo quasi certamente «Perché non hai scelto di intervistare (anche) lui?»
Lì per lì, non seppi come motivare la mia scelta, ed arrossii come un gambero.

19 lug 2021

«I pionieri dell’alpinismo a San Vito di Cadore. Da Matteo “Pierossi” a Tita “Valier”» di Ernesto Majoni

Sarà presentato a San Vito, in Sala Polifunzionale, il prossimo 26 agosto alle 18.30, «I pionieri dell’alpinismo a San Vito di Cadore. Da Matteo “Pierossi” a Tita “Valier”» di chi scrive, promosso dal Consiglio direttivo della Sezione sanvitese del Cai, curato insieme all’ex Presidente sezionale Sabrina Menegus ed edito per i tipi di Grafica Sanvitese.
Con 64 pagine ricche d’immagini in bianco e nero, l’autore conclude il percorso avviato nel 2007 con le ricerche condotte per la stesura di «Da John Ball al 7° grado», uscito nel centocinquantesimo della conquista ufficiale del Pelmo, e per la successiva mostra fotografica «150 anni di alpinismo», curata da Aldo Menegus, Alberto Bonafede (guida alpina, caduto sul Pelmo nel 2011) col sottoscritto, e presentata a San Vito nell'estate 2008.
Il lavoro tratteggia succintamente e in modo scorrevole le biografie di diciotto valligiani che animarono l’alpinismo a San Vito, dall’800 alla 2^ guerra mondiale. Due di loro, Battista Belli Vecio ed Angelo Del Favero Auzel, non furono arrampicatori, ma un infallibile cacciatore ed esploratore del misterioso «Valon» del Pelmo l’uno, il primo custode del rifugio San Marco sul Col de chi da Òs, l’altro. Gli altri si distinsero come guide e portatori alpini, talvolta occupano la cronaca dolomitica – come Matteo Ossi, Giobatta Giacin, Luigi Cesaletti, Giobatta Zanucco, Giuseppe ed Arcangelo Pordon - talaltra restando più defilati, ma apportando comunque un valido contributo all’alpinismo d'esplorazione sulle cime della Valle del Boite.
La copertina  del volume
Il libro si chiude con alcune note sulla storia alpinistica di San Vito posteriore al secondo conflitto mondiale, dalla nascita (1947) della locale Sezione del Cai e del Gruppo Rocciatori Caprioli, nelle cui file crebbero ottimi alpinisti come Gianni Palatini, Giulio De Lucia, Emilio e Natale Menegus, Gianni, Marcello e Alberto Bonafede. E così via, fino ad oggi, con altri giovani che tengono viva la tradizione alpinistica del paese, in cui già nel 1860 si registravano le visite di pionieri d'Oltralpe come John Ball, William Utterson Kelso e Paul Grohmann, decisi a lasciare la loro impronta sulle cime che contornano il paese cadorino.
Con questo lavoro il Cai di San Vito vuole ricordare e onorare un gruppo di alpinisti determinati ma un po’ meno in vista rispetto ai colleghi della vicina Cortina, separati fino al 1918 da un confine politico, non linguistico né tecnico né ideale, che si frequentarono spesso nel comune proposito di far conoscere le Dolomiti.

15 giu 2021

Spigolo Dibona sulla Cima Grande di Lavaredo: Angelo o Rudl?

Un problema «di lana caprina», per chi va sui monti e non bada a storie e microstorie, ma una questione storica stimolante? Per esempio, la paternità di una salita celebre ed ancora oggi frequentata: lo Spigolo Dibona sulla Cima Grande di Lavaredo.
Lo spigolo, che si affaccia sulla leggendaria parete nord e sale per cinquecento metri su roccia solida, in Italia è normalmente e tranquillamente attribuito alla guida Angelo Dibona, che lo avrebbe salito con Emil Stübler di Dresda in un giorno (Antonio Berti non lo indica, il Cai di Auronzo cita il 16, secondo Fini e Gandini era il 24) di agosto 1909.
Dibona sulla Torre Grande d'Averau,
inverno 1912?
Dibona, allora trentenne, viveva la sua migliore stagione, che durerà fino alle soglie della Grande Guerra, per poi riprendere nel 1921: il cliente si era già segnalato proprio sulla Cima Grande, salendo il 10 agosto 1903 il camino sud con la guida Giovanni Frigo Mosca, di Auronzo.
Ciò premesso, la storia italiana cita lo spigolo come «Dibona», e lo ricorda perché da lassù, l’8 agosto 1968, cadde investito da una scarica di pietre il giovane Ivano Dibona, guida nipote di Angelo; in area tedesca, invece, lo spigolo è detto «Ellerkante».
Per i germanofoni, infatti, la via sarebbe stata salita, in solitaria e senza lasciare alcuna traccia, nell’estate 1908 da Rudolf Josef Eller (Rudl), guida di Lienz classe 1882, e così quella di Dibona sarebbe la prima ripetizione. Eller, buona guida scomparsa nel 1977, è ricordato per molte altre salite e a suo nome sono intitolate una torre e un sentiero attrezzato nelle Dolomiti di Lienz, dove aprì l'Alpenraute Kamin sulla Grosse Laserzwand, salito in solitaria nell’estate 1912.
La doppia paternità è una questione importante? Rileva per la storia delle Dolomiti? O è una questione patriottica, dato che fino al 1918 lo spigolo ricadde geograficamente in territorio austro-ungarico, Dibona ed Eller erano cittadini dell’Impero ma poi Dibona divenne italiano? Tra l’altro, nel 1917 Angelo e Rudl si incontrarono in Val Gardena, dove scalarono insieme alcune cime come guide militari.
Ci vorrebbe una ricerca approfondita su fonti di qua e di là del confine, che non è escluso un giorno o l’altro si possa fare.

12 giu 2021

Ferramenta di un secolo fa sulle crode ampezzane

Tre vecchie vie di roccia sui monti ampezzani celano una particolarità: dal momento che, in apertura, i primi salitori incontrarono difficoltà elevate per l'epoca, per farle conoscere e apprezzare ai ripetitori, stabilirono di facilitarne i passaggi più complicati con ausili metallici.
Le tre vie si concentrano tutte nell’ultimo decennio dell’800 (tra il 1892 ed il 1899) e furono aperte dalla stessa guida: Antonio Dimai Deo (1866-1948), elemento di punta dell’alpinismo nelle Dolomiti tra i due secoli, legato fino ad età matura ad alpinisti illustri.
Iniziando con il primo percorso,  ci portiamo verso la grande e ombrosa parete nord del Sorapis.
Sulla via con la quale il 15 settembre 1892 i tedeschi Müller e von Waltershausen vinsero grazie a Dimai, Arcangelo Dibona Bonèl e Zaccaria Pompanin de Radeschi la parete della sommità più alta del gruppo, un «muro liscio e verticale, alto c. 4 m., che presenta la maggiore difficoltà dell’intera salita» fu agevolato con una fune di ferro e alcune maniglie di piombo, ritrovate oltre un secolo dopo quasi intatte dalla guida Enrico Maioni con il cliente Francesco Del Franco.
Antonio Dimai in azione

La seconda via è la cosiddetta Inglese, che sale sulla Tofana di Mezzo per il versante sud-ovest e fu scalata da Raynor e Phillimore con Dimai e Giuseppe Colli Pàor, l’11 agosto 1897. Lungo il tracciato, una liscia parete molto esposta fu attrezzata già nel 1898 dalla Sezione ampezzana del Club Alpino Tedesco-Austriaco con 6 metri (20, afferma un'altra fonte) di corda metallica, ritenuta ancora affidabile da una guida di Cortina, impegnata pochi anni addietro nella manutenzione della via ferrata della Tofana giusto sopra la Via Inglese, oggi dimenticata.
Il terzo ed ultimo percorso, sul quale Dimai incontrò una strozzatura molto impegnativa, è il destro dei due camini che solcano la parete sud del Sas de Stria. Superato il 12 agosto 1899 dai fratelli Witzenmann di Dresda con Dimai e Giovanni Cesare Siorpaes Salvador, il «difficilissimo passaggio» fu reso più docile con un «moncone di corda di ferro sporgente dalla strozzatura superiore»: si potrebbe ragionevolmente supporre che, data la posizione della cima lungo il fronte, il lavoro sia stato eseguito durante la Grande Guerra, ad uso tattico e strategico, da guide militari.
Una trentina di metri di funi fissate su rocce levigate e strapiombanti: sono tre facilitazioni che in un certo senso anticiparono le vie attrezzate e furono utili agli scalatori e al turismo, già più di un secolo fa.

5 giu 2021

Torre Terza o Latina, un pezzetto di cuore

Nel mio archivio di cartoline alpestri, sempre aperto all'ampliamento, ne conservo una dell'epoca in cui i fotografi le facevano colorare a mano, da validi e pazienti collaboratori. Essa ritrae le Cinque Torri, o Torri d'Averau, o Pénes de Potor o ancora Pénes de Naeròu, secondo la toponomstica autoctona ormai un po' desueta.
Dai dossi antistanti - sui quali non appaiono ancora la seggiovia e il rifugio Scoiattoli, costruiti alla fine degli anni '60 - le guglie si mostrano in una visione classica e molto sfruttata, più apprezzabile dalla terrazza del rifugio.
Nel centro del gruppo di torri emerge la tozza Terza o Latina, alta una settantina di metri, di scarsa storia e rilevanza, anche se da qualche decennio è stata resa un po' più interessante con alcuni monotiri di falesia. Salita in epoca e da persone ignote per l'inclinata parete SE (che può servire per iniziarsi alla roccia, essendo la via meno difficile delle Torri), la Latina appare un po' più attraente dal lato ovest, rivolto al Nuvolau e visibile in primo piano in questa, come in tante altre fotografie (a fianco, nel centro).
 
Le  Cinque Torri, anni '50 (raccolta E.M.)
Da quel lato c'è un altro percorso, un paio di lunghezze verticali sul 3°, anch'esse salite da ignoti e abbastanza interessanti.  Molti anni fa ricordo che circa a metà parete c'era un grosso chiodo di foggia antiquata, piantato lì da almeno qualche decennio. Oltre alle due vie normali, sulla parete sud della torre ce n’è una terza, aperta il 9.8.1942 dallo Scoiattolo Luigi Menardi con i fratelli Lino e Antonio Zanettin e rimasta sempre nell’ombra.
Sotto l'aspetto etimologico, l’oronimo Latina non ha un'origine certa: risulta che caratterizzasse la torre già oltre un secolo fa, quando l'alpinista Vittorio Emanuele Fabbro la salì in solitaria sia da sud, che da nord per una via ritenuta nuova (1914).
Qualunque ne sia la storia, sulla terza torre d’Averau la folla è certamente stata sempre contenuta. Ad essa, fra l'altro, non si sono neppure interessate molte pubblicazioni: «Dolomiti Orientali» di Berti (1956-1971), «Cinque Torri. La palestra degli Scoiattoli» di Dallago-Alverà (1987), «Su par ra Pénes de Naeròu» (2000), dedicato da chi scrive al microcosmo delle Torri, nel quale migliaia di persone hanno iniziato a trafficare con corde, chiodi, moschettoni e staffe, lasciandoci spesso un pezzetto di cuore.

2 giu 2021

Luigi Nichelo, guardiacaccia e guida alpina

Un tempo, tra le guide e portatori che animavano l’offerta turistica di Cortina d'Ampezzo, uno solo «veniva da fuori» (se così si può dire...), poiché non portava uno dei tradizionali cognomi locali, pur vivendo da sempre in paese. Quest’uomo, di cui più sotto si diranno i dati, si era amalgamato bene nella comunità, tanto da meritarsi lo schietto soprannome di «Nìchelo», comune con la famiglia Zambelli.
Si trattava di Luigi Picolruaz, nato nel 1862 in Ampezzo, dove i suoi avi erano arrivati una quindicina di anni prima dalla limitrofa Val Badia. Di professione, come diversi paesani, faceva il guardacaccia, e fu assunto dalle nobildonne Emily Howard Bury e Anna Power Potts, che sul finire del secolo 19°, presso il «Tornichè» (l’ampio curvone che la Strada d'Alemagna fa, a metà tra Fiames e Ospitale) si erano costruite una elegante casa di caccia, chiamata «Villa Sant’Hubertus» e della quale pare un’impresa disperata recuperare immagini fotografiche.
Servendosi di una conoscenza approfondita delle montagne ampezzane, a soli ventidue anni Luigi aveva ottenuto la licenza di guida alpina, che dismise nel 1909. Il suo nome si è trovato nelle fonti disponibili soltanto riguardo alla seconda salita della via originaria Ghedina-Wall (versante Tofane) della Torre Grande d'Averau, compiuta da aspirante il 5 giugno 1883, con le guide Angelo Menardi e Simone Ghedina e un tale Giuseppe Girardi.
La sua figura compare spesso in immagini di caccia, accanto ai nobili che amavano venire in Ampezzo per le loro battute. Picolruaz, che nel primo dopoguerra ebbe un amaro scontro con la Sektion Ampezzo del D.Oe.A.V., in via di rifondazione come Sezione di Cortina del Cai, per aver guidato senza permesso un turista in vetta al Cristallo, si spense sessantaduenne nel 1924.
Luigi Picolruaz è il 1° da destra, seduto
Cinque anni prima la famiglia, che abitava a La Vera sulla Strada d’Alemagna, era stata mortalmente colpita dalla perdita del figlio ventenne Emilio, tornato infermo dal fronte. Essa si è conclusa in linea maschile con Maurizio (1904-1981), ultimo dei figli di Luigi, guardiacaccia  anche lui ed estremo difensore delle memorie avite. Purtroppo il Nichelo non compare ancora sulle due grandi lapidi che in cimitero ricordano le nostre guide e i portatori.

15 mag 2021

Scalando la Punta Fiames

Non tutti coloro che conoscono la Punta Fiames, che disegna lo sfondo della conca d'Ampezzo verso nord, sanno cosa sia il "Calvario". Nota agli scalatori perché utile solo a loro, è la traccia, definita ma sempre un po' vaga, che collega le falde del Pomagagnon con le vie sul lato sud della Punta: la Dimai-Verzi, lo spigolo, la Centrale, la moderna Paolo Rodèla.
Per scoprire l'origine del nome "Calvario", dato alla traccia non si sa quando né da chi e diffuso solo a voce, basta seguirla in un giorno di sole; data l'implacabile esposizione, il più delle volte l'esperienza risulta torrida ed estenuante. Si aggiunga la mancanza di acqua sul tragitto, che dall'ospedale Codivilla – comodo punto di partenza per la parete - se s'imbocca il sentiero giusto richiede un'ora e più, e il quadro è completo.
Sulla parete, agosto '82

Illogico per una gita poiché, ad un certo momento, la traccia fa i conti con un lungo camino, di roccia solida ma verticale e non facile, il Calvario fu scoperto dalle guide Antonio Dimai d Agostino Verzi, studiando la prima via della parete sulla quale poi, il 7.7.1901, condussero il londinese J. L. Heath.
Va senz'altro ammirato l'intuito di Dimai e Verzi, che fino alla Grande Guerra formarono una forte cordata, nell'individuare un passaggio sullo zoccolo della parete, verso la terrazza ghiaiosa, dalla quale iniziano le vie. Il Calvario comincia sotto la Punta della Croce (nomen est omen!), un po' spostato rispetto alla verticale della Fiames; sale tra ghiaia, mughi e terra, piega verso la Fiames, supera il canale che la divide dalla Punta della Croce e si alza sulla prima parte della parete fino ad una chiazza ghiaiosa che si vede già da Cortina.
I libri non danno indicazioni chiare, e chi sale il Calvario si giova dell'abitudine, di indicazioni orali o del proprio intuito. Il primo tratto del percorso, che parte dal sentiero di Forcella Pomagagnon sotto le rocce e traversa dapprima quasi in piano, superando poi alcuni canali tormentati da frane, è agevolato da qualche bollo rosso per rassicurare gli indecisi.
Modestamente, ho percorso il Calvario venti volte. Il 16.12.1984 vi andai con l'amico Roberto, che voleva sperimentarlo: giunti senza problemi alla chiazza ghiaiosa, mentre sgranocchiavamo qualcosa gli parlai della via Dimai, che frequentavo da tempo. Un po' di relax in quel recesso dolomitico aspro e incredibilmente silenzioso, rese meno faticoso del previsto il dover riprendere la via di casa.
Entrambi gustammo molto quella stramba divagazione; oggi penso che, debitamente attrezzati, non avremmo esitato a continuare per la Dimai, che - per chi dà valore a certe cose - oltre a quella alpinistica riveste anche una certa importanza per la storia. Dopo tante avventure, la ricordo sempre con affetto.

11 mag 2021

I Bagni di Campo, un'impresa turistica di scarsa fortuna

Molto tempo prima che nella regione dolomitica prendesse piede la moda di salire sulle cime, gli stranieri che venivano a conoscere i Monti Pallidi erano indirizzati verso i paesi della Val Pusteria (Braies, Dobbiaco, Monguelfo, San Candido, Villabassa) dall’opportunità di usufruire di bagni termali di varia ampiezza e valore terapeutico.

Anche nella valle d’Ampezzo, nel villaggio di Campo di Sotto e sulla riva della Costeana, il torrente che scende dal lago di Ciou de ra Maza sotto il valico del Giau, già all'inizio dell’800 era stata trovata una fonte di acqua minerale, leggermente solforosa. Prevedendo un possibile business, ci fu subito chi partì per Innsbruck con alcuni campioni del prezioso liquido al seguito, da sottoporre al parere di tale dottor Öllacher, rinomato chimico.

Dopo aver appurato che, sia per qualità che per combinazione degli elementi minerali presenti, le acque ampezzane non erano certo inferiori a quelle della Pusteria e avrebbero potuto fornire anch’esse un valido aiuto per curare affezioni, soprattutto  reumatiche, Gaetano Ghedina Tomàsc (1804-1877), proprietario dell'Albergo Aquila Nera e riconosciuto mentore dello sviluppo turistico nella conca ampezzana, si attivò per costruire uno stabilimento termale, che dal 1831 venne gradualmente ingrandito, fino a disporre di dodici vasche per abluzioni in legno di cirmolo.

I Bagni di Campo, in una vecchia stampa

Nel corso degli anni, però, la somma delle frequentazioni (122 bagnanti nel 1869; 98 nel 1870; soltanto 25 dieci anni dopo) e i risultati finanziari dell'impresa dei Bagni di Campo si dimostrarono sempre più deludenti, rispetto alle ottimistiche previsioni iniziali. Fu così che nell’autunno 1882, quando una rovinosa inondazione (la celebre «agajon del otantadoi», narrata in un drammatico resoconto dal giovanissimo testimone Gian Antonio Gillarduzzi de Jobe, che colpì la Pusteria e non risparmiò nemmeno la valle d'Ampezzo) sommerse l’edificio dei Bagni, nessuno ebbe voglia di farlo rivivere.

All'inizio del '900, nelle immediate vicinanze di quello che era stato lo stabilimento, la guida alpina Angelo Maioni Bociastòrta costruì invece un ristorante, in seguito ampliato ad albergo e intitolato al grande pittore Tiziano. che la leggenda narra avesse visto la luce nel 1490 in una povera casa là vicino.

30 apr 2021

Piz Ciampèi, "Carneade" delle Dolomiti

Irrilevante per l'alpinismo, il Piz Ciampèi (2290 m.) fa da sentinella fra il territorio di Livinallongo e quello badiotto e balza subito agli occhi dalla piana di Intrà i Sasc, tra il Passo Falzarego e il Valparola. Appartiene alla dorsale del Col di Lana e le sue pendici sono lambite da chi si dirige verso il Setsas, per farne il giro o salirne la cima, oppure da chi desidera raggiungere il Col di Lana o anche solo vagabondare sui prati di Pralongià.
Eppure, quanti lo conoscono e l'hanno visitato?
Iside e il sottoscritto, che in anni di escursioni setacciammo a fondo i nostri monti e in quei paraggi passammo più volte, non avevamo mai sentito nominare il Piz. Fino al 9 settembre del 2012. L'idea ci venne dall'amico Sandro, che aveva salito la cima pochi giorni prima di noi, per relazionarla nel sito web al quale collaboravamo entrambi.
E così in una domenica già pervasa dai primi brividi d'autunno, cercando una delle gite che animarono una stagione un po' pigra, andammo a mettere il naso in quell'angolino dolomitico. Possiamo dire che, come capita, la nostra voglia di novità fu ben ripagata.
Per accostarci al Piz, usciti dal sentiero che parte da Valparola ci alzammo per tracce sui pascoli di Gerda, ancora risuonanti di bovini, mirando alla distesa di mughi che si spinge verso la cima. Lasciati i mughi, non ci volle molto per conseguire il castello terminale, poco elevato ma di rocce puntute e friabili. Superatolo a destra senza eccessive difficoltà, in breve raggiungemmo la rustica croce di vetta. Dalla stretta cima, sull'ombroso versante che guarda l'Armentarola cercammo subito un'alternativa per il ritorno, ma invano...
In vetta al Piz Ciampèi

Giunti su una montagna, specialmente se nuova, mi veniva spontaneo confrontarla con mete già note; a questo riguardo, associai il Piz Ciampèi a due vette già salite più volte, lo slanciato Becco Muraglia, caposaldo della Muraglia di Giau, e il selvaggio Monte Nero di Braies, rilievo di rocce e mughi a picco sul lago.
Dal Ciampèi, distante un'oretta dal trafficato Passo Valparola e dalla folla che anima i resti di guerra della zona, la visuale è davvero ampia e meritevole: a N e O la Val Badia e le sue cime, fino al Sas da Putia e al Boè; il Piz Cunturines, il Lagazuoi, il Sas de Stria e il Setsas; a S e E, più discosti, l'Antelao, il Nuvolau, la Croda da Lago, il Cernera, il Pelmo, la Civetta, il Pore, il Col di Lana, un tratto della Marmolada e via via, oltre le Pale di San Martino.
Dopo il "riposo del guerriero" al sole di una cima pur modesta, ma inquadrata in un ambiente grandioso, scendendo ci attrasse una singolare trincea fra le rocce basali con scarsi resti di guerra; qui si materializzò l'unico compagno della giornata, un bel camoscio solitario.

16 apr 2021

Sulla Torre Quarta d'Averau

Quarantotto anni fa di questi giorni, il 15 aprile 1973, due grandi alpinisti di Cortina già prossimi alla cinquantina, Lino Lacedelli e Renato "Renè" De Pol (caduto due settimane dopo sulla Punta Fiames), aprirono una via di un'ottantina di metri di lunghezza sulla parete nord della Torre Quarta, di cui poche fonti riportarono la notizia.
Valutata di 6° (il grado fu poi ritoccato da alcuni ripetitori), fu l'ultima nuova via di Lacedelli, ventinove anni dopo la sua prima conquista, sulla Cima Ovest della Torre Grande. Breve ma secca, in seguito la via Lacedelli-De Pol fu ripetuta alcune volte e forse non è stata ancora dimenticata.
La  Torre Quarta, foto E.M.

La torre, divisa in due cime adiacenti, emerge come un enorme dente fra le guglie d'Averau ed è stata salita da ogni lato: la via normale è una esperienza le cui peculiarità possono far sorridere chi arrampica, abituato oggi a valutare le avventure con cocktail di cifre e lettere e non più con i numeri che un tempo marchiavano le difficoltà.
90 m. di 3° e poco più, una parete verticale, solida e sicura, in una zona che ormai sa più di falesia che di montagna; una via che è rimasta nella mente dello scrivente, per due motivi.
Il primo: nell’ottobre del 1979, per sfidare arcani timori che da tempo mi accompagnavano, la salii con la corda nello zaino. Non fu né la prima né l'ultima "solitaria", ma senza dubbio la meno semplice.
Il secondo: la via normale della quarta delle Cinque Torri si deve ad un grande alpinista, Angelo Dibona, che la salì con il compaesano alpinista Amedeo Girardi, nel settembre 1911.
Nel 1979 l’avevo già percorsa, e lo feci ancora in seguito. Certo è che in quella domenica riuscii a calcare senza nessuno davanti né dietro la cima, dove ricordo un malconcio libro di vetta, con qualche firma illustre. Quando mi sentii pago, mi venne fame: tre doppie ed eccomi sotto l’ampio tetto giallo ai piedi della Torre, al riparo dalla pioggia incombente. 
Qui alcune amiche stavano preparando salsicce per ristorare la compagnia, dispersa fra le torri.

9 apr 2021

La Croda del Béco, o Cu de ra Badéssa, cima ricca di storia

Discorrendo con alcuni locali, rimasi un po’ stupito del fatto che due o tre di loro conoscessero bene la montagna detta Croda del Béco, ma ancora non sapessero perché veniva, e da molti viene tutt'oggi denominata “el Cu de ra Badéssa”.
La ragione è un po' più seria di quanto il nome possa far pensare, e su questa questione storico-toponomastica degna di un approfondimento ho radunato due notizie.
Ai conoscitori del territorio di Cortina non occorrerà presentare la Croda del Béco, massiccia elevazione del gruppo della Croda Rossa che raggiunge i 2810 m, a sud domina con caratteristici lastroni levigati la Monte de Fòses ed a nord precipita per un chilometro verso il Lago di Braies. 
La Croda sorge sul confine tra Cortina, Marebbe (dove è chiamata Gran Sas dla Porta) e Braies (dove è chiamata Grosser Seekofel), al limite nord del Parco Naturale delle Dolomiti ampezzane. Proviamo a guardarla da lontano, per esempio dalle case di Bigontina: per la somiglianza del duplice dosso finale (il più elevato, con la croce di vetta, è il sinistro) con due giganteschi glutei, molti secoli fa i nostri avi battezzarono il monte, già salito da pastori e cacciatori e reso nota da Paul Grohmann con la prima ascensione turistica, compiuta il 15.9.1874, “el cu de ra Badéssa” (occorre la traduzione?)
Il nome si lega ad un fatto storico. Il crinale della Croda del Béco, infatti, fece per secoli da confine tra il territorio di Ampezzo e quelli amministrati dal convento di Sonnenburg, oggi Castel Badia, in comune di San Lorenzo di Sebato presso Brunico.
A metà del '400, la più nota delle badesse di Sonnenburg, l'energica e bellicosa Verena von Stuben, tentò con la forza di annettere la florida conca ampezzana ai territori soggetti all'autorità del convento, con i quali la cima confinava. Dopo lunghi scontri e mediazioni, nel 1471 la badessa (che tra l'altro si era più volte ribellata all'autorità del potente Vescovo di Bressanone, il Cardinale filosofo Nikolaus von Kues-Nicolò Cusano) dovette desistere e la vertenza per il confine terminò.
La Croda del Béco con il sottostante rifugio Biella
Fu così, dunque, che gli ampezzani presero a chiamare sdegnosamente e con feroce ironia il monte dalla forma tondeggiante, che ricordava loro la prosperosa e odiata suora, “el cu de ra Badéssa”. Questa è l’origine del nome popolare ampezzano, che oggi rischia di impallidire; cruente vertenze per i confini non se ne accendono più, carte e guide riportano il nome Croda del Béco (anzi, più spesso Becco) e chi sale dal sottostante rifugio Biella si dedica all’ampio panorama dalla cima, sorprendendo spesso qualche stambecco al pascolo, ma al riferimento alla storia antica non fa certamente più caso.

22 mar 2021

Montagne d'inverno, o quasi

Se, come si trova nelle fonti, la prima scalata d’inverno sul Cristallo fu quella compiuta il 22 novembre 1882 da Pietro Dimai, ottima guida ampezzana con il Maestro Stradale, fra l’altro poco avvezzo alla montagna, Bortolo Alverà, non si capisce perché non sia mai stata asseverata con uguale logica la prima invernale del Sorapis. L’impresa arrise invece al Tenente veneziano Pietro Paoletti, reduce da alcune salite sulle cime tra San Vito e Cortina, compiute nell’autunno 1881 (secondo la sua testimonianza, in condizioni invernali) con i fratelli e guide sanvitesi Arcangelo e Giuseppe Pordon, il 26 novembre del medesimo anno 1881.
Giudicando inerenti all’inverno meteorologico solo le ascensioni compiute con successo tra il solstizio d’inverno e quello di primavera (cioè tra il 21 dicembre e il 21 marzo; non sarebbe stata quindi invernale neppure la prima ascensione della Croda da Lago, opera di Jeanine Immink con Antonio e Pietro Dimai, il 10 dicembre 1891), l’alpinista Giorgio Brunner di Trieste rivendicò - con un filo di polemica - come sua la conquista del Sorapis d’inverno, portata a termine con l'amico Ovidio Opiglia il 17 marzo 1938.
Punta Nera, marzo 2021 (foto I.D.F.)
Possiamo pure pensare che Brunner, esperto di salite d’inverno anche su vette impegnative (solo tra Ampezzo e Auronzo il Piz Popena, la Cima Cadin di San Lucano, il Cristallino di Misurina, la Punta Nera e la Zesta), avesse ragione; si deve però aggiungere, nel dubbio, che il Sorapis fu salito agli sgoccioli della stagione invernale vera e propria, e forse in condizioni meno severe rispetto a quelle del tardissimo autunno o del cuore dell’inverno.
Già in novembre, su vette elevate, ombrose e severe come il Cristallo e il Sorapis, si possono incontrare bufere, vento, neve e ghiaccio, ordinarie in inverno, che quindi smentirebbero il rispetto del calendario, e forse queste condizioni trovarono pure Paoletti e le guide cadorine, centoquaranta anni or sono.
Oggi questo calcolo pare avere minor senso, tanto è vero che chi scrive salì la parete della Punta Fiames in dicembre, gennaio e marzo e anche, restando sull'escursionistico, raggiunse il remoto Castel de ra Valbones in dicembre; in ognuna delle quattro occasioni, le condizioni meteorologiche e ambientali erano assolutamente tardo-estive.

9 mar 2021

La Torre Lusy

Per scendere dalla Torre Lusy delle 5 Torri (la cui parete nord, salita l'1 agosto 1913 da Marino Lusy con la guida Bortolo Barbaria, offre una delle più belle ascensioni di media difficoltà della «palestra degli Scoiattoli»), bisogna calarsi nel vuoto della parete sud.
La vicenda della discesa, da decenni resa sicura con robusti anelli fissi, interessa forse soltanto gli storici. Si può credere che nel primo decennio i ripetitori della Lusy (se ce ne furono, dato il complicato periodo) scendessero per il versante di salita, come faceva un tempo chi aveva una corda sola.
La calata «normale», assai aerea, misura 40 metri, e per compierla, di corde ne occorrono due. Il primo a scendere lungo la parete fu Vittorio Emanuele Fabbro (1890-1951), un alpinista trentino che lasciò diversi segni anche sulle montagne di Cortina.
La Torre Lusy (foto E.M.)

Fabbro compendiò al meglio l’insieme di interessi naturalistici e geografici, patriottismo irredentista, generosità personale e cultura che caratterizzò l’alpinismo trentino tra l'800 e il 900. Accademico del Cai, presiedette la Sat nel 1938-42 e nel 1944-45, anni difficili in cui lottò per impedire che un intero patrimonio ideale andasse distrutto.
Nella montagna vedeva la sintesi delle sue esperienze, e arricchiva le salite compiute con note ed osservazioni su fitti quaderni. Fra le sue prime, è più nota la cresta ovest-nord-ovest della Brenta Bassa (1913); amò molto anche il Campanile Basso, che salì undici volte da versanti diversi. Combattente nella 1^ guerra mondiale in Marmolada, negli anni '30 redasse le prime guide «Da rifugio a rifugio» del Cai-Tci. La sua biblioteca, oltre 9000 volumi tra i quali rari testi della letteratura alpinistica tedesca e inglese di fine secolo, è oggi conservata nel Museo Tridentino di Scienze Naturali.
Tra gli anni '10 e '20 del secolo scorso venne più volte in Ampezzo, e al termine di una delle prime ripetizioni della Lusy, il 12 settembre 1923, «inventò» la discesa verso sud, sulla quale quarantacinque anni or sono gli amici Ivo e Carlo ci fecero sudare freddo, poiché a metà le loro corde s’ingarbugliarono…

Sachsendank 1883 Nuvolau 2023. 140 anni di storia e memoria

Ernesto Majoni e Roberto Vecellio, Sachsendank 1883 Nuvolau 2023. 140 anni di storia e memoria , pp. 96 con foto b/n e a colori, Cai Cortina...