29 mar 2020

Una cima da (ri)scoprire: il Piz Checco sul Sorapis

È possibile che il pioniere dell’esplorazione dolomitica Francesco Lacedelli, il famoso «Chéco da Meleres», a Cortina non abbia neppure un angolo che lo onori? 
Ci sono, bisogna dirlo, la targa in cimitero sulla quale il suo nome è inciso al terzo posto, e quella all’inizio di Via Grohmann, che lo ricorda col suo primo e affezionato cliente: e basta. 
Ovvero qualcosa c’è, ma non si sa esattamente dove sia e se esista ancora. Sfogliando il volume di Grohmann «Wanderungen in den Dolomiten» (1877), che 105 anni dopo i coniugi Sanmarchi resero accessibile a chi non sa il tedesco, traducendolo in «La scoperta delle Dolomiti. 1862», è emerso un riferimento. 
Nella precisa cronaca della conquista del Sorapis, Grohmann propose un oronimo con cui intendeva battezzare «un sottile rilievo, una guglia che Checco salì ad esplorare» durante la prima ascensione del "3000" ampezzano, compiuta il 16 settembre 1864 con Francesco Lacedelli e il guardaboschi Angelo Dimai Deo. 
Chéco da Melères, 
intorno al 1865
Secondo l'austriaco, la guglia, che svetta sulla «Forcelletta Pian della Foppa, la più alta del gruppo del Sorapiss», da cui «scendevano ripide le rocce nell’imponente Fond de Rusecco» non aveva un nome per i cadorini: il versante sud del Sorapis ricade, infatti, verso San Vito, allora parte del Regno d’Italia. Fu così che Grohmann volle denominarla Piz Checco, «in onore dell’uomo al quale tanto devo per la mia attività nelle Dolomiti». 
156 anni dopo l’incredibile tour de force del trio, che per salire il Sorapis, scendere e tornare a Cortina camminò senza sosta per ventidue ore (e Chéco aveva quasi settant'anni), il Piz non è semplice da individuare sul terreno e nei documenti.
Nonostante anche il nome si sia praticamente perso, resta però l’unico omaggio a Lacedelli, che non fu solo un cacciatore e un alpinista, ma anche un abile orologiaio e un combattente per la libertà. Chéco morì a novant'anni il 30 agosto 1886, due settimane dopo l’inaugurazione del secondo rifugio della conca ampezzanaa Forcella Fontananegra, tra due delle vette che proprio lui aveva conquistato: la Tofana di Mezzo e quella di Rozes.

22 mar 2020

Torrione Guido Lorenzi, una cima da conoscere

Poiché non sappiamo quando si potrà avvicinare di nuovo, o anche solo fotografarla dal basso senza una giustificazione opportuna, facciamo un volo pindarico verso una cima sicuramente poco nota della valle d'Ampezzo: il Torrione Guido Lorenzi. 
L’occasione viene dalla recente scomparsa di Candido Bellodis, uno dei cinque che lo scalarono per primi sessantun anni fa: deceduti Bruno Menardi, Beniamino Franceschi e Claudio Zardini, del quintetto è ancora tra noi soltanto Carlo Gandini. 
Dove ci troviamo? Al cospetto di un «pronunciato spuntone che, a foggia di prora, si stacca sul versante meridionale della Costa del Pin», «intitolato dai primi salitori alla memoria dello Scoiattolo cortinese Guido Lorenzi»
Il Torrione, per chi lo volesse localizzare, è evidente dalla sella di Cimabanche, e ci si passa sotto traversando da Pratopiazza per la forcellina «della Quaira del Pin»; probabilmente poche persone lo fanno d’estate, forse qualcuna di più d’inverno con gli sci. 
Indubbiamente fuori dal mondo, il luogo non ha grande rilevanza confronto ad obiettivi più gettonati; può attrarre più che altro dal punto di vista della storia e della memoria. 
Guido Lorenzi, lo Scoiattolo e guida morto giovanissimo nel 1956 a seguito di un incidente sul lavoro, oltre che dal Torrione è ricordato dal rifugio a Forcella Staunies (attualmente chiuso), dedicatogli dal collega «Mescolin», che lo costruì e lo gestì per decenni con la moglie Antonia. 
Da Valfonda verso la Croda Rossa d'Ampezzo.
Il Torrione Lorenzi è in basso a destra (foto E.M., 2011)
Gli Scoiattoli che s’inventarono di salire la cima il 17.6.1959, formavano due cordate: in una c'erano Bellodis e Zardini e nell'altra Franceschi, Menardi e Gandini. Essi giunsero in vetta rispettivamente per la parete e lo spigolo S (V grado) e per il camino S (IV) dopo tre ore di salita. 
Del Torrione oltre a quelle che ci dà la guida Berti, ci sono poche attestazioni: ma  la cosa non è importante. Per gli appassionati di storia alpinistica conta il ricordo dell’avventura di quei giovani (Bellodis e Franceschi, avevano 27 anni, Zardini 26, Menardi e Gandini, solo 20); conta il fatto che lo sfortunato Lorenzi sia ancora presente tra le sue montagne, e soprattutto conta il ricordo di chi non c’è più. 

14 mar 2020

In ricordo di Candido Bellodis, Scoiattolo e guida

Ieri se n'è andata la seconda guida ampezzana in ordine di età, tra quelle ancora in vita: Candido Bellodis, il "Fantorìn". Valente artigiano lattoniere, Bellodis era nato nel 1932; divenne guida autorizzata nel 1956 e fu anche maestro di sci. Scoiattolo dai primi anni ‘50, si mise in luce a vent'anni iniziando con il coetaneo Beniamino Franceschi Mescolin (deceduto nel 2001) una serie di scalate di grande rilievo. 
Il 23 gennaio 1953 esordì con la prima salita invernale della via Dallamano-Ghirardini sulla parete O del Cristallo, con il Mescolin ed Elio Valleferro. Il 26 luglio con Lino Lacedelli, il Mescolin e Claudio Zardini partecipò alla sua prima nuova salita, la parete S del Cernera, visibile da Selva in Val Fiorentina; un sesto grado che si dice non sia mai stato ripetuto. 
Nel giugno 1954 toccò a un altro sesto grado dolomitico: il "Gran Diedro" SE della Croda dei Rondoi in Val Pusteria, salito in giornata con Franceschi, Zardini e Bibi Ghedina; l’anno seguente a Ferragosto Candido superò, in venti ore con un bivacco in parete e con l’inseparabile Mescolin, l’ambita parete NO della Torre d'Alleghe, nel gruppo della Civetta. Un mese prima, sempre con Franceschi, aveva salito in diciotto ore consecutive il Torrione S del Pelmo, difficile pilastro che domina il sottostante rifugio Venezia-Alba Maria De Luca. 
1956. Scoiattoli di Cortina allo Stadio Olimpico
del Ghiaccio. Candido Bellodis è il 2° da sinistra
Nel 1959, ancora una volta col Mescolìn, Candido fu al centro della polemica con gli svizzeri Albin Schelbert e Hugo Weber, per la conquista della Direttissima sulla parete N della Cima Ovest di Lavaredo. Dopo la pacificazione delle due cordate la via, conclusa il 6 luglio, fu battezzata «Via Italo- Svizzera». Nel corso della sua attività, il Fantorin aprì anche altri itinerari nei gruppi del Cridola, Cristallo, Spalti di Toro, Tofana e Tre Cime; nel settembre 1970, con Luciano Da Pozzo, si cimentò in un'ultima via nuova di sesto grado, la parete S della Cima Formenton, ai piedi della Tofana Terza. 
Con Candido scompare uno degli ultimi tra gli Scoiattoli e guide ampezzane attive soprattutto negli anni Cinquanta del ‘900; un alpinista tenace e parco di parole, che ricordiamo con riconoscenza.

1 mar 2020

Prima invernale sulla Croda Rossa d'Ampezzo

Il 9 marzo di sessantasette anni or sono fu realizzata l’impresa che qui ricordo. Ne fu sede la Croda Rossa d'Ampezzo, importante cima dolomitica tentata per la prima volta nel 1865, da Paul Grohmann, Angelo Dimai Déo e Angelo Dimai Pizo. Poco sotto la vetta, i tre commisero un errore di valutazione che fece fallire la salita, e il successo toccò poi a Whitwell, Christian Lauener e Santo Siorpaes il 20 giugno 1870. Durante la guerra, l’esercito austro-ungarico installò sul culmine un osservatorio, destinato forse a funzionare tutto l’anno, ma non è noto se fu mai usato. 
Per la prima salita della Croda d'inverno occorsero 83 anni. Riuscirono a compierla infatti il 9 marzo 1953 tre guide, Lino Lacedelli, Ugo Pompanin e Guido Lorenzi, e Angelo Menardi Milar, all'epoca segretario del CAI Cortina. 
Dopo aver dormito al Cason dei Cazadore di Ra Stua, i quattro partirono prima dell’alba, in una giornata radiosa, e per la via Wachtler uscirono in vetta insieme al sole. Prescindendo dalla difficoltà della via, che con neve e ghiaccio sicuramente oppose qualche ostacolo, la prima della Croda Rossa d’inverno fu anzitutto un'avventura tra amici, allora tutti poco più che ventenni. 
La Croda Rossa d'Ampezzo (foto C.B.)
Durante una gita a Malga Federa mezzo secolo dopo, Lino confidò che per il quartetto, molto allenato, l’invernale fu soltanto una bella gita, portata a termine con il preciso intento di «soffiarla» al gruppo di alpinisti romani che in quei decenni batteva a tappeto le Dolomiti. 
In seguito la Croda, forse l’ultimo grande 3000 dolomitico ad essere salito d’inverno, è stata raggiunta altre volte. La seconda salita, nel 1967, spettò a uno dei romani, Marino Dall’Oglio, Accademico del CAI e profondo conoscitore della zona, che salì con la moglie e la guida Bruno Menardi Gim. Secondo Dall’Oglio, la salita fu meno difficile di quella estiva, poiché il freddo aveva saldato le pietre mobili rendendo più sicura la roccia della Croda, tristemente nota per la sua consistenza inquietante. 
Oggi la cima è poco visitata anche d’estate; per questo, è bello ricordare gli autori della scalata del 1953 (dei quali rimane soltanto Ugo Pompanin, inossidabile novantatreenne), evocando una «bella gita» che chiuse il periodo pionieristico dei nostri monti. 

Sachsendank 1883 Nuvolau 2023. 140 anni di storia e memoria

Ernesto Majoni e Roberto Vecellio, Sachsendank 1883 Nuvolau 2023. 140 anni di storia e memoria , pp. 96 con foto b/n e a colori, Cai Cortina...