1 dic 2022

Antiche fotografie di montagna: le guide alpine ampezzane del 1901

Una suggestiva fotografia della vecchia Cortina è senz'altro quella, utilizzata nel 1983 per la copertina del volume su "Le guide di Cortina d’Ampezzo" di Franco Fini e Carlo Gandini, edito da Zanichelli. L’immagine ha una data e un luogo precisi: fu ripresa il 2 novembre 1901 davanti all’Osteria al Parco – Weinstube di Teofrasto Dandrea, nella piazza adiacente la Chiesa Parrocchiale. Non escludiamo che sia opera di Emil Terschak, fotografo e alpinista boemo insediatosi nel 1893 a Cortina, dove aprì un atelier di fotografia e stampa di cartoline.
Essa immortalava le guide e i portatori alpini in esercizio quell’anno nella valle d’Ampezzo. Vi compaiono oltre 30 persone, non tutte guide: ci sono anche il proprietario dell’Osteria ospitante  e reggente pro-tempore della Sezione locale dell’Alpenverein; l'albergatore Annibale Verzi; il giovane medico Angelo Majoni; il Capitano Distrettuale, il maestro Giuseppe Lacedelli, donne, bambini e ragazzi, tra i quali l’undicenne Fritz Terschak, che diventerà un punto di riferimento per l'alpinismo e lo sport ampezzano.
Dalle carte consultate per la compilazione del libro sopracitato, si evince che la Direzione del Club Alpino, in previsione della riunione, diramò un invito «a tutte le guide, pregando di voler comparire infallantemnte sabato 2 novembre 1901 alle ore 12 precise nella Piazza dell’Osteria al Parco, in costume da guida con corda e piccone nonché distintivo, per fare la progettata fotografia, e tenere dopo la Seduta generale.»
L'invito ha una simpatica postilla: «con multa di 30 soldi a chi non comparisse!» E questa postilla, la severa Direzione del Club Alpino non mancò di applicarla: delle ventinove guide invitate, la dovettero pagare in sette, che non si videro all’Osteria, ovviamente ognuna per i propri motivi. Gli inosservanti, consegnati alla storia dell’alpinismo, furono Antonio Lacedelli da Rone portatore, Luigi Menardi de Zinto guida, Arcangelo e Serafino Siorpaes de Valbona guide, Giuseppe Siorpaes Refo portatore, Pietro Siorpaes de Santo guida e Luigi Picolruaz Nichelo guida.
Si può immaginare come sia andata quella giornata novembrina, in cui le montagne erano sicuramente già velate di neve, i primi quattro rifugi d'Ampezzo già chiusi, il turismo assente: si ritrovava un pezzo della comunità locale, un pezzo importante che è rimasto nelle cronache per quanto fece per lo sviluppo della conoscenza dell’ambiente e della frequentazione turistica.
Oggi, cento e passa anni dopo, suscita un po’ di curiosità rivedere tutte quelle facce barbute, quelle divise, quelle corde e quelle piccozze!

3 nov 2022

Salite invernali o in condizioni invernali?

Ci siamo spesso soffermati sulla questione storica che riguarda le ascensioni prettamente «invernali», quindi comprese nell’inverno astronomico, dal 21 dicembre al 21 marzo, oppure soltanto «in condizioni invernali» che, a seconda dell’altezza della montagna, del versante di salita, delle temperature e quant'altro, potrebbero verificarsi tra ottobre ed aprile.
Così ragionando, l’ambita prima invernale del Cristallo, realizzata dall’Imperial Regio Maestro Stradale Bortolo Alverà de Pol (uomo in vista nell’Ampezzo di fine ‘800, primo Presidente e Direttore della Cassa Rurale, 1849-1922) con la provetta guida Pietro Dimai Deo "Piero de Jènzio" (1855-1908), stando alle fonti sarebbe stata una salita «in condizioni invernali», in quanto avvenuta il 22 novembre 1882, e quindi questo mese ne cadrebbe il 140° anniversario. La data, ripresa da fonti affidabili come Terschak (1953) e Fini-Gandini (1983), è stata poi ritenuta un refuso di stampa della guida di Antonio Berti, viatico per generazioni di alpinisti, e riportata al 21, o al 22 febbraio dello stesso 1882.
Pietro Dimai Deo, specialista
 di salite invernali

Quella del Cristallo, comunque, a Cortina non fu la prima salita di un monte «in condizioni invernali», spettando probabilmente il primato all’ascensione "della Tofana" di cui scrive Strobl nella sua «Storia di un irrequieto», biografia del pioniere Richard Issler uscita a Cortina nel febbraio 2022. La Tofana, non si sa quale delle tre cime, fu raggiunta dal graduato Simon Hammerschmid, di stanza a Cortina e guidato da Arcangelo Dimai Deo, il 10 novembre 1880.
In Ampezzo e dintorni ci sono altre salite la cui datazione oscilla tra il periodo invernale e le condizioni invernali: la Rocchetta di Prendera, salita da Pietro Paoletti con i fratelli sanvitesi Pordon il 27 ottobre 1881; il Sorapis, scalato dagli stessi il 26 novembre 1881; la Croda da Lago, salita da Jeanine Immink con Antonio e Pietro Dimai Deo il 10 dicembre 1891; il Becco di Mezzodì, raggiunto negli stessi giorni dalla medesima cordata della Croda da Lago...
In effetti, sul tema la storia annovera qualche incertezza: ma probabilmente, quando gli inverni erano veri inverni, lunghi e crudi, salire sulle cime più elevate in tardo autunno significava ben altro, rispetto ad oggi: e, se occorre dirlo, non c’era il Soccorso Alpino da poter chiamare per eventuale assistenza.

3 ott 2022

Festa riuscita per i 150 anni della prima ascensione sul Becco di Mezzodì

Domenica 2 ottobre la Sezione del Cai di Cortina, presieduta da Luigi Alverà, ha voluto ricordare con un momento di festa il 150° anniversario da quando due uomini misero piede per primi sul Becco di Mezzodì.
L’elegante piramide del gruppo della Croda da Lago, che si ammira pressoché da ogni angolo della valle d’Ampezzo, un tempo – quando veniva detta, non si sa ufficialmente perché, anche «ra Ziéta», la civetta - costituiva una meridiana per i contadini e i pastori del paese, che segnava l’ora di lasciare il lavoro e dedicarsi al pranzo e al riposo prima di riprendere le fatiche.
Il Becco fu una delle prime cime attorno a Cortina a suscitare un desiderio di conquista, che spettò al Capitano scozzese William Edward Utterson Kelso (1829-98), con una delle prime guide locali, Santo Siorpaes Salvadór (1832-1900): per la cronaca, ciò avvenne il 5 luglio 1872.
L’itinerario dei primi salitori, ancora oggi seguito, non é molto lungo e sale per due camini di roccia buona e poi su una cresta più friabile: in vetta, dove è stato detto che “potrebbe quasi attendarsi un battaglione di Alpini”, si trovano sempre silenzio e pace, poiché la cima non è più battuta come nel periodo pionieristico.
Dalla prima mattinata, presso il rifugio Croda da Lago è stato dedicato un lieto convivio alla cima che svetta di fronte al rifugio, sul displuvio tra i territori di Cortina e San Vito, e si specchia nel lago di Federa, uno dei più suggestivi delle Dolomiti.
Il Becco di Mezzodì
Sono stati ricordati vari episodi della storia alpinistica del Becco e di chi l’ha frequentato nel corso di 150 anni, esplorandone ogni camino, diedro, parete e spigolo, e la giornata è trascorsa in allegria, gustando gli ottimi chenedi di Beatrice Alverà, chef della casa che la sua famiglia gestisce da quasi trent’anni.
Della «Ziéta» tanto è stato ormai raccontato e scritto: quest’occasione meritava forse qualche pagina a ricordo, come il Cai fece nel settembre 2001, per il 100° di vita del rifugio Croda da Lago. Certamente la Sezione di Cortina se ne ricorderà nell’estate prossima, quando cadrà il 140° dall’apertura della Sachsendankhütte, oggi rifugio Nuvolao sulla cima omonima, il più antico ricovero della nostra zona dopo la Dreizinnenhütte, oggi rifugio Locatelli-Innerkofler alle Tre Cime di Lavaredo, aperta nel 1882.
Frammenti di storia come quella del Becco, è importante non abbandonarli nei cassetti della memoria e farne partecipe chi sempre più spesso ha piacere di conoscere le zone che abita e frequenta per diletto.
Il Becco di Mezzodì ha una bella storia da raccontare, che sarebbe un peccato dimenticare.

1 set 2022

88 anni della via Comici sulla Punta Col de Varda

Pur mostrandosi evidente fin dalle sponde del lago di Misurina, la Punta Col de Varda (rilievo del crinale principale del «Ramo di Misurina» nei Cadini omonimi) non è certamente stata la prima scoperta nella zona, in cui i cacciatori auronzani si avventuravano già prima del 1870.
La punta si mette in luce per il profilo piramidale, e da 2504 metri di quota incombe alle spalle del rifugio che ha lo stesso nome ed è unito al sottostante borgo da una comoda seggiovia. Non è semplice accertare chi possa avere calcato per primo l’angusta sommità, quando e come ciò sia avvenuto. È plausibile pensare a un approccio da nord, attraverso le roccette che collegano i ghiaioni con una sottile forcella tra le due sommità in cui si divide la cima (un tempo, il luogo più utilizzato per rientrare alla base); o, forse, per la rampa scanalata che sale in diagonale da ovest a sud, esaurendosi sulla citata forcella e facendo posto ad un'ascensione di gusto ormai antico.
La Punta Col de Varda, da Misurina

È comunque provato che la frequentazione della Punta, avvalorata a partire dagli anni ‘30 del Novecento da alpinisti come Piero Mazzorana, Luigi Castagna, Guido Pagani, Valerio Quinz e fino a Simone Corte Pause, giovane guida di Auronzo, iniziò un giorno preciso. Il 1° settembre del 1934, infatti, Emilio Comici – al tempo guida a Misurina - condusse il maturo Conte Sandro del Torso a battezzare il camino che taglia verticalmente la parete verso il lago e s’interrompe sotto un rigonfiamento, chiave risolutiva dell’ascensione.
La via Comici-del Torso, percorsa per la seconda volta una settimana dopo l’apertura da tre alpinisti, uno dei quali si è accertato che fu lo scrittore Dino Buzzati (legato con l’Accademico di Trieste Renato Zanutti e la giovane Rosetta Orlandi), è la soluzione più elegante e, si dice, più remunerativa per giungere sulla cima.
Sorvolando sui dettagli delle esperienze personali, che ci hanno visto su quella Punta in sei occasioni, non possiamo non ricordare la prima di esse, in cui (ormai oltre un quarantennio fa), sotto l’ometto di pietre della cima spuntò un pezzo di carta firmato dall’ormai anziana guida Mazzorana, giunto lassù da solo poche ore prima di noi, per rivedere probabilmente per l’ultima volta una delle vette del Cadore sulle quali impostò e trascorse gran parte della propria vita.

1 ago 2022

83° anniversario dello spigolo del Sas de Stria

Quest’anno non mi sfugge il compleanno: l’83°, dello spigolo sud-est del Sas de Stria, salito per la prima volta da Andrea Colbertaldo e Lorenzo Pezzotti di Vicenza il 1° agosto 1939, ripetuto d'inverno nel marzo 1953 da Marino Dall'Oglio e compagni ed ancora molto frequentato.
Negli anni ’70-’80 la via, che segue lo spigolo sul lato sinistro -  guardando da Falzarego - della cima slanciata e solitaria che incornicia il Passo, per noi era un classico. L'itinerario segue l’elegante e ripido spigolo e sotto il bianco strapiombo finale nasconde due opzioni: l'originale è la più bella, la più semplice ricalca un itinerario di alpinisti austriaci del 1908.
Ben chiodata già negli anni ‘60, la Colbertaldo-Pezzotti è una via amata, soprattutto nelle stagioni intermedie, da corsi di roccia e per allenamento. Accesso e rientro sono quasi da palestra: alla base dello spigolo si giunge in meno di mezz'ora per ripida traccia dalla strada che sale al Passo Valparola, e al ritorno si segue la normale del Sas, che non ha difficoltà di rilievo, anche se un po' di attenzione non è superfluo, visto che di incidenti ne succedono molto spesso.
Sas de Stria, Passo Falzarego e Lagazuoi Piccolo,
anni '60
Dal 23 ottobre 1977 (quando lassù mio cugino mi fece un regalo per il compleanno n° 19) al 5 giugno 1993, quando rifeci lo spigolo per l’ultima volta Claudio, penso di averlo salito in una quindicina di occasioni, gustandomi sempre una salita non troppo lunga, varia e divertente, ricca di bei passaggi e sicura. Tra tutte, non dimentico quella del 1987 con Nicola, quando - su un tratto delicato - un misterioso mancamento mi fece fare un voletto che poteva avere gravi risvolti, ma per fortuna mi costò solo un livido sulla schiena e un paio di pantaloni da buttare.
L’ultima volta condussi lassù un amico di pianura, che penso non avesse mai arrampicato. Usciti in cima, convinto che - data la bella giornata tardo-primaverile, e la salita che avevamo compiuto in solitudine e tranquillità - il mio compagno di cordata fosse soddisfatto, aspettavo un apprezzamento sulle rocce dove "ero di casa" da tempo.
Con aria un po' scocciata, invece l’amico brontolò che una salita che finisce su una cima raggiungibile da turisti, dove ci si ferma a schiamazzare allegramente e non mancano i rifiuti (ma quante ce ne sono, di cime così...), per lui non aveva tanto senso.
Forse anche un po’ amareggiato da questa risposta, da allora non salii più lo spigolo del Sas de Stria.

1 lug 2022

83° anniversario della fondazione del Gruppo Scoiattoli di Cortina

Se fossero ancora tra noi, avrebbero 101 anni.
Sto parlando dei tre ragazzi ampezzani dai quali, il 1° luglio 1939, scaturì l’idea di fondare la “Società Rocciatori Sciatori Scoiattolo”, nota come “Scoiattoli di Cortina”.
I ragazzi del 1921 che nell’ultima estate d’anteguerra, sfidando la diffidenza delle vecchie guide locali, ruppero gli schemi e si unirono in un nuovo gruppo, erano Angelo Bernardi Agnèl, detto Alo; Ettore Costantini Cùzo, detto Vecio, e Mario Zardini Zésta.
Alo, che chi scrive ricorda con piacere di avere intervistato per RAI 3 nell’autunno 1998, lasciò presto la roccia per dedicarsi all’hockey, al lavoro e alla famiglia: è scomparso, ultimo della cordata, nel settembre 2000. Il Vecio continuò con successo la carriera alpinistica, divenendo guida nel 1946 ed esercitando la professione fino agli anni Settanta. Non ha fatto purtroppo in tempo a festeggiare il sessantesimo della Società, essendo scomparso nel giugno 1998.
Lo aveva preceduto di tre anni Mario Zésta, attivo nella Società per un breve periodo e compagno di Luigi Ghedina Bibi ed Eugenio Monti in una via nuova sul Castelletto in Tofana nel settembre 1947.
Alo, il Zésta e il Vecio a Pocol, 1939
Naturalmente, ai tre fondatori si aggiunsero subito numerosi amici delle classi 1920-1924, tanto che nel primo periodo la Società arrivò ad oltre tre dozzine di soci, che si dedicarono alla meticolosa esplorazione dei monti di casa e non solo, risolvendo una copiosa messe di problemi alpinistici.
Simbolo e monumento del primo decennio del sodalizio è senz’altro il Pilastro della Tofana di Ròzes, salito per la parete sud-est dal Vècio con Romano Apollonio Nàno il 14-15 luglio 1944: ventun ore d’arrampicata, oltre cento chiodi piantati per superare cinquecento metri di 6° superiore, che hanno costituito, e costituiscono ancora un banco di prova per diverse generazioni di arrampicatori.
Mi è gradito in questa sede, accomunandoli con tutti gli altri compagni, ricordare nell'83° dalla costituzione i tre “Scoiattoli” fondatori. Immagino che gradirebbero senz’altro festeggiare la ricorrenza tutti insieme, magari sulla terrazza del rifugio a loro intitolato nel 1970, ammirando il tramonto sulle Cinque Torri, che li videro nascere e poi spiccare il volo verso le grandi montagne.

20 giu 2022

80 anni della Via Scoiattoli sul Popena - Gruppo del Cristallo

«Boni», all'anagrafe Albino Alverà (Pazifico), aveva diciannove anni il 29 giugno 1942, quando con «Nano» Romano Apollonio (Varentìn), di poco più grande, si avventurò sulla lavagna grigio-gialla del Monte Popena, il placido rilievo della catena del Cristallo «a picco verso il Lago di Misurina con parete oscillante nei vari punti tra 200 e 150 m. di altezza, barancioso negli altri versanti» (sono parole di Antonio Berti).
Sul largo versante est del monte, che all'epoca contava sei itinerari tracciati a partire dal 1926 da Casara, Mazzorana, alpinisti lecchesi e triestini, i membri della Società Scoiattoli (il gruppo di scalatori e sciatori non professionisti fondato a Cortina il 1° luglio 1939) avevano individuato una settima linea, lunga meno di cento metri ma verticale e sempre esposta, che prometteva notevole impegno.
Per venire a capo della via occorsero sei ore e 22 chiodi; nonostante le magre risorse di cui disponevano i giovani, in parete ne furono lasciati sei. Posta sul lato destro della muraglia guardando dal basso, la via degli Scoiattoli fu la prima delle decine di tracciati di VI aperti dagli ampezzani in otto decenni di attività.
La stampa non riportò, almeno fino all'uscita della guida Berti del 1950, notizie precise dell’itinerario. Il 13 settembre 1949, i primi a ricalcare le orme degli Scoiattoli erano state due  guide auronzane, Francesco Corte Colò «Mazzetta», classe 1926, e Valerio Quinz, ventunenne. Nell’estate 1952, il primo a cimentarsi sulla parete da solo fu invece il loro paesano Alziro Molin, un ragazzo avviato ad un fulgido avvenire alpinistico.
La parete del Monte Popena (foto E.M.)
La parete del Monte noto anche come Popena Basso, scoperta quasi per caso dal vicentino Severino Casara, che con Lorenzo Granzotto vi inaugurò una «scuola di roccia per Misurina» destinata nei decenni ad un crescente sviluppo, è molto apprezzata ancora oggi per salite di ogni livello. L’ultima nuova creazione, dell’auronzano Simone «Scossa» Corte Pause ed Eleonora Colli Dantogna di Cortina, è datata autunno 2021. Ottant’anni fa, proprio dal piccolo Popena partì la lunga avventura degli Scoiattoli nel mondo verticale, con un itinerario breve ma intenso, che tramanda il nome del gruppo di giovani scanzonati tra i quali «Nano» e «Boni» si fecero particolarmente valere.

20 mag 2022

La campana del Campanile Toro compie 70 anni

Tra i monti del Cadore, uno in particolare «si leva, meravigliosam. ardito, meravigliosam. bello, dritto come un obelisco, tra Forcella Le Corde e Forcella Cadin. La cima non è più ampia di un comune tavolo da salotto. Salito dall’O, per quanto interessante, non è così difficile come potrebbe far supporre la vertiginosità della sua forma…»
Queste ammirate considerazioni le scrisse Antonio Berti, in «Dolomiti Orientali–Volume II» del 1961. Si riferivano al Campanile Toro (2345 m.), nel gruppo degli Spalti omonimi, presso Domegge di Cadore.
Vi sembra che simili parole non avrebbero potuto indurci ad una nuova avventura, vicina a casa e d’impegno senz’altro alla nostra portata?
Nell’estate del 1993 ci convincemmo a provare il Campanile, e fu un successo. L’avvicinamento erto e faticoso, su ghiaioni infiniti da guadagnare passo per passo, la salita varia e divertente, la discesa aerea, appagarono molto le nostre cordate. E poi, il Toro ha una storia movimentata: dopo la conquista di due austriaci nel 1903, vi si sono cimentati fior d’alpinisti: da Piaz a Stősser, da Molin e Pais ai Ragni di Pieve, e tutti su percorsi duretti.
In vetta, dove si sta solo in due, la sorpresa: una campana lucente, che ovviamente – una volta lassù - non potevamo non far risuonare anche noi, nel magico silenzio che avvolge il Campanile.
Ernesto, Roberto e la campana, 1994 (Foto O.M.)

Il ricordo della campana e del suo allegro tintinnio mi torna in mente oggi, visto che tra poco il bronzo compie 70 anni! Scriveva infatti nel 1952 il sanvitese Enrico De Lotto: «Il 10 agosto gli sportivi di Domegge hanno posto sulla vetta di questo Campanile una campana con la seguente scritta: «Gli sportivi di Domegge a ricordo di tutti gli alpinisti caduti sulle Dolomiti». Sulla campana vi è riprodotta una figura di S. Giorgio, protettore di Domegge; una figura di S. Michele è per ricordare la chiesa antichissima di Folcegno nella valle Talagona; una testa di toro, simbolo del dio Thor e lo stemma del Cadore.»
Forse per il 70° non ci saranno feste solenni; ma l'anniversario merita comunque il ricordo come un bel frammento di storia cadorina, vista la bellezza della cima, su cui vivemmo due intense avventure, immersi tra gli Spalti di Toro alle prese con un alpinismo antico.
La fotografia scattata in vetta durante la seconda visita, nel giugno del 1994, ha ridestato in chi scrive il grande piacere di quei momenti.

21 apr 2022

Per i 90 anni di Enzo Croatto, dialettologo e alpinista

Il 9 aprile,  Enzo Croatto è giunto ai novant'anni d'età. Dialettologo e studioso di origini friulano-venete e cresciuto a Belluno, il professore si è sempre occupato di lingua e toponomastica ladina, ed ha all'attivo - in primo luogo - il lavoro di coordinazione del «Vocabolario Ampezzano» delle Regole (1986) e nel 2004 la pubblicazione del «Vocabolario del dialetto ladino-veneto della Valle di Zoldo (Belluno)»: 635 pagine, in cui ha condensato anni di ricerche nella valle che gli è stata molto cara.
L’8/9/2007 gli fu intitolata la biblioteca specialistica dell’Istituto Ladin de la Dolomites di Borca di Cadore, giunta a raccogliere oltre 2500 volumi, periodici, audiovisivi, carte topografiche, atlanti e tesi di laurea di notevole interesse, sulla Ladinia bellunese e non soltanto; l'1 dicembre 2020 l’istituzione è stata inopinatamente chiusa, la biblioteca ha perso il suo nome e dopo un anno e mezzo pare consegnata ad un destino infausto.
Oltre ad aver seguito e arricchito la Biblioteca con generose e cospicue donazioni, Croatto ha collaborato con fervore a pubblicazioni linguistiche, affrontando con entusiasmo scoperte, analisi e comparazioni dialettologiche e toponomastiche, culminate in 110 pubblicazioni. Per festeggiare il suo 85° anniversario, nel 2019 Pietro Monego, Marco Moretta ed Ernesto Majoni lo omaggiarono con «Enzo Croatto. Biografia e bibliografia degli scritti linguistici in occasione dell’85°compleanno», un opuscolo con l’elenco di tutti gli scritti d'argomento linguistico redatti in quarant’anni.
Ernesto Majoni, il professor Croatto e Daniela Larese Filon
Istituto Ladin de la Dolomites - Borca di Cadore
Dedicazione della Biblioteca, 8/9/2007

Croatto non è soltanto un valido esperto di ladino, lingua tra le cui varianti si muove con agilità. Per tre decenni ha insegnato in Istituti superiori provinciali; ha vissuto la perdita di studenti e amici nella sciagura del Vajont; ha collaborato molto col Dipartimento di Linguistica dell'Università di Padova, affiancando soprattutto i docenti G.B. Pellegrini, A. Zamboni e M. T. Vigolo. È stato un alpinista, cresciuto alla scuola dei bellunesi, ha scalato varie cime e scritto di montagna; ha vissuto, insomma, un'esistenza dinamica e dedicata alla famiglia, alla cultura, all’impegno e allo studio.
Forse a Cortina - dopo la scomparsa di gran parte di coloro che, fin dagli anni '70 del Novecento, parteciparono alle ricerche linguistiche sull'idioma locale - la sua figura e il massiccio lavoro svolto per la parlata sono un po' accantonati, specie da alcuni puristi dell'ampezzanità, ed è un peccato.
Per questo, amici e sostenitori - che comunque conta numerosi - lo ricordano e gli porgono un fervido e sincero augurio: aggiungere vita agli anni, continuando le analisi sui temi coltivati per anni e non facendo mancare la sua voce e la sua competenza nell’ambito della cultura ladina.
«Ad multos annos», caro professor Croatto!

4 apr 2022

Torre Lusy, 4 aprile 1976

Ho già scritto della mia prima salita su roccia, il Becco di Mezzodì il 14 luglio 1975. Ho scritto un po’ meno invece della seconda, che fu la prima realizzata effettivamente in cordata: la Torre Lusy, una delle Cinque Torri d’Averau.
Dopo aver scoperto che l'alpinista al quale nel 1913 fu intitolata la guglia appena salita, Marino Lusy (un ricco triestino di origini greche, appassionato d'arte orientale), fu anche un benefattore e lasciò alla sua città un grande palazzo sull'angolo del centrale Corso Italia, ho realizzato quasi per caso che, nella mia prima salita della Lusy, ricorse per quattro volte il numero 4. 
Era il 4 aprile, del 1976; eravamo in 4; il nostro fedele compagno “Berti” classifica, forse abbondando un po', la salita di 4° grado. Con gli amici Ivo (scomparso nel 2021), Carlo e Luciano, dopo aver raggiunto con mezzi di fortuna Bai de Dones e aver risalito la pista di sci ancora coperta di neve (la seggiovia era ormai chiusa, e comunque non avremmo avuto di che pagarla), con l’assistenza di Giacomo che stette alla base a guardarci, salimmo i centoventi metri della Lusy, che in seguito avrei frequentato diverse altre volte.
La Torre Lusy, da nord

Finita questa, mentre Ivo e Carlo – i più ardimentosi - affrontavano con baldanza la vicina parete nord della Torre del Barancio (quella sì di 4° e anche un po’ di più, che io dovetti attendere due anni per salire), Luciano e io ci cimentammo sulle torri Quarta Bassa (un altro 4!) e Inglese, più facili.
Eravamo scesi da quest’ultima, ma gli altri due amici erano ancora appesi alle rocce ed il pomeriggio avanzava rapidamente: cosa potevamo fare, per evitare il buio?
Ben poco! Accoccolati sui massi liberi dalla neve sotto le guglie, dopo esserci assicurati che tutto procedeva per il meglio, aspettammo nervosamente finché Ivo e Carlo rimisero piede sulla terraferma, e poi giù di corsa nella neve fradicia, fino a Bai de Dones.
Nel parcheggio c'era una sola macchina: quella del padre di Luciano, che dapprima appioppò un sonoro manrovescio al figlio, poi ammonì noi altri e infine ci riportò tutti a casa.
Il tutto accadeva quarantasei anni fa (che però non è un multiplo di 4...)

22 mar 2022

Col Siro, o Crepo de ra Ola, cima verde

È certamente più intrigante l'antico nome di «Crepo de ra Óla», di cui mi parlò per la prima volta Alberto Zangiacomi, già guardiacaccia e profondo conoscitore del territorio di Cortina, rispetto a quello corrente di «Col Siro», che sa un po’ di dedica a qualche persona per chissà quali ragioni o meriti.
Il Col in questione è un rilievo fatto a cupola e quotato 2300 metri, che si eleva isolato sull’Alpe di Faloria; verde di magro pascolo sul versante che guarda le cime del Sorapìs, sul lato opposto presenta invece timidi affioramenti rocciosi.
Il rilievo è una meta poco nota, apprezzata da pochissimi nonostante lo si sfiori traversando da Faloria verso il lago del Sorapis e si possa salire in cima con una semplice quanto piacevole deviazione, anche sci alpinistica, che prende avvio da Forcella Faloria, soprastante la Capanna Tondi.
La cupola del Col Siro o Crepo de ra Ola (foto E.M.)

Non varrà forse la pena partire da lontano con l’unico scopo di salire il Col, sicuramente esplorato già in tempi remoti da cacciatori, pastori, topografi; fatti i conti, però, la cima ha una simpatica individualità che merita la visita. Fra diverse occasioni di salita, l’ultima con Mirco – arrivato apposta da Treviso per "spuntare" il Col Siro dal suo carnet dolomitico –, ricordo quella di 14 anni or sono. In una domenica di luglio guidammo lassù quattro amici appassionati, stimolati dall'aver udito quell'oronimo particolare, ed in cima ritrovai intatta la rustica croce di rami di mugo, che Iside ed io avevamo eretto nella nostra precedente ascensione.
Saliti e scesi dal rilievo, chiudemmo la giornata rientrando per la familiare Val Orita. Ma prima, nel riprendere la via di Faloria avevamo incrociato una famiglia di gitanti (sentendoli parlare, mi feci l'idea che fossero catalani), che ci osservava incuriosita. Dietro di noi, anche i quattro si presero la briga di salire sul Col, per godersi la magnifica vista che esso offre sul circondario dolomitico.
Così, in una giornata d'estate l'umile montagna ampezzana fu percorsa da dieci paia di scarponi: a suo modo, un primato che potrebbe essere difficilmente eguagliato, per un culmine secondario e ignorato da tutte le pubblicazioni. Ma non da chi scrive, secondo cui il Col Siro, o meglio il Crepo de ra Ola, ha anche lui qualche cosa da dire.

15 mar 2022

Sul Diedro della Romana in Cinque Torri

La Romana, una delle guglie riunite nella seconda delle Cinque Torri d'Averau, è celebre tra gli appassionati per la via "del diedro". L’itinerario, molto bello e ripetuto, supera sul lato nord l'intera spaccatura che divide la Romana dalla limitrofa Torre del Barancio.
Il Diedro della Romana (foto E.M., 2009)
Alto circa cento metri e percorribile in un’oretta, il diedro - così netto da sembrare quasi tagliato con una spada - è al centro di uno dei piccoli dubbi storici che attendono una soluzione univoca. Nelle fonti, ultimo il manualetto «Cinque Torri. La palestra degli Scoiattoli» di Franz Dallago e Sandro Alverà risalente a 35 anni fa, si legge che il diedro fu superato nell’estate 1944 da alcuni membri della Società Scoiattoli, attiva da alcune stagioni nella scoperta delle montagne native.
Non è ancora stato possibile trovare la data esatta, e dare un volto ai ragazzi (ché tali erano, gli Scoiattoli dell'epoca) scopritori di quella alternativa sulla Torre, che col diedro offre il meglio di sé. Nella pratica, la questione ha un'importanza davvero minima, ma incuriosisce ugualmente il ricercatore e rappresenta un enigma. In effetti, la via è una delle classiche più in voga delle Torri, tra quelle d’impegno contenuto e alla portata anche di ragazzi come eravamo noi, che nel tempo migliore la salimmo più volte.
La roccia del diedro è solida e lisciata da decenni di passaggi; l'assicurazione e le fermate vengono garantite da chiodi cementati; la discesa si risolve in un’unica, lunga doppia sul versante opposto, per giungere finalmente al sole: e che cosa potevamo volere di più?
Gli Scoiattoli innominati che nell’estate di settantott'anni fa salirono il verticale e atletico diedro, non sapevano di avere scoperto un'occasione di sano trastullo su una torre altrimenti un po’ anonima, battezzata – secondo una ricerca – non nel 1912, ma già alla fine del secolo precedente, dalla guida Zaccaria Pompanin con un cliente ignoto e rimasta sempre nell’ombra.
Oggi le testimonianze dirette, utili a riconoscere quei ragazzi, si sono rarefatte, visti i decenni trascorsi dalla prima salita; il ricercatore però non demorde e insisterà nel  cercare un capoverso, un paragrafo, una riga per estrarre la data e i nomi che mancano nelle fonti che ha consultato. Sarebbe un bel colpo, anche per la storia delle torri d’Averau.

6 mar 2022

Torre del Barancio: la sua storia si arricchisce

Interessarsi di aspetti minori e dimenticati della storia dell’alpinismo, soprattutto di quello svolto in valle d’Ampezzo, porta spesso ad assumere episodi, fatti, notizie di valore forse microscopico, ma di buon interesse per la conoscenza dei luoghi. E' il caso della Torre del Barancio, la mediana delle tre punte che formano la torre Seconda d’Averau, che si chiama così da tempi lontani per il ciuffo di mughi che ne caratterizza il culmine.
Torri Lusy, del Barancio e Romana

Primo a salire la torre fu Zaccaria Pompanin "de Radéschi" con clienti, alla fine del XIX secolo. La via da lui seguita per raggiungere quella sommità e l'adiacente Torre Romana, il camino sud (buio, muschioso e di scarso pregio estetico), oggi viene poco praticata. Altrettanto non si può dire invece per lla parete nord.
Scalata il 7 settembre 1934 dalle guide Ignazio Dibona Pilato (del quale è ricorso in gennaio l’80° della scomparsa, sotto una valanga sul Gran Sasso) e Pietro Apollonio Longo con il cliente Ferdinando Stefani, compagno di cordata anche di Severino Casara, la via fu pubblicizzata dalla Rivista Mensile del Cai l’anno seguente. Poco più di cento metri, solida, fredda a causa dell’esposizione e con difficoltà sostenute, la parete fu salita con sedici chiodi; nel corso degli anni è divenuta famosa, e oggi è sempre apprezzata e ripetuta.
Da una cronaca semiseria redatta da Giancarlo (Ianco) e Gherardo (Ghero) Melloni di Milano, che nei primi anni ‘40 arrampicavano spesso in Ampezzo con le guide più in voga del periodo, estraiamo un episodio. Il 9 agosto 1942 i fratelli neppure ventenni, insieme al terzo fratello Andrea, di quindici anni, al padre e all’amico «Gasto», in tre cordate condotte rispettivamente da Celso Degasper, Giuseppe Dimai e Angelo Verzi (stranamente, mai saliti lungo la via), furono i probabili primi ripetitori della Dibona; su di essa dissero di aver trovato un chiodo con un moschettone, indice forse di una ritirata.
Una parte della comitiva concluse poi la giornata salendo anche la via Dibona-Girardi-de Zanna sulla parete N della Torre Grande (1910), impegnativa com’era nello stile del grande Angelo Pilato. Anche questo è un minuscolo frammento di storia, che può servire per arricchire la cronologia delle amate Cinque Torri!

26 feb 2022

Punta Nera, in ricordo di Mario e Adriano

Riordinando l'archivio fotografico ho ritrovato una serie di immagini scattate in montagna, oggi tanto più memorabili in quanto due dei protagonisti di quella serie se ne sono andati da tempo. Si tratta di istantanee riprese da chi scrive e dall’amico Mirco nell’estate 2008, salendo sulla Punta Nera del Sorapìs per la breve e non banale via comune con Mirco, Mario, la moglie Paola e Adriano, già ottantenne.
Gli amici, nessuno dei quali credo conoscesse la via d’accesso alla Punta, erano venuti appositamente da Treviso per passare una bella giornata in compagnia; e tale la giornata fu, con la visita alla punta -  friabile e solitaria come poche -  sulle orme del cacciatore, armaiolo e pioniere delle guide ampezzane Alessandro Lacedelli "Sandro da Melères", costruttore anche dell’orologio del campanile di Cortina.
Sandro era arrivato lassù, secondo Grohmann, quasi per caso nell’estate del 1876, mentre inseguiva un camoscio ferito. Centotrentadue anni dopo, sfruttando la comoda funivia per portarci in alto e, non da ultimo, godendoci anche la canonica birra fresca al rifugio, noi lo imitammo, almeno in parte.
Non immaginavo che quella fosse l’ultima occasione in cui mi ritrovai in montagna con Mario, alpinista, musicista, disegnatore e pittore che ci lasciò soltanto due anni dopo: con l’inossidabile Adriano invece ci rivedemmo in un rifugio sulle Pale di San Martino cinque anni prima della scomparsa, avvenuta nel 2018.
In vetta alla Punta Nera, 26.7.2008 (foto P. Cesco Frare)

Accomunando oggi nel ricordo i due amici, ho rivissuto la giornata in cui feci loro conoscere la panoramica Punta Nera (fu la settima ed ultima volta che la salii); ricordo uno splendido momento di amicizia e di condivisione tra le cime, progettato fra l’altro con lo scopo di sistemare in vetta il libretto, che forse é ancora lassù.
L’occasione è utile per rievocare alcuni alpinisti che su quella cima hanno scritto il loro nome: oltre a Sandro Lacedelli ci sono Federico Terschak e Isidoro Siorpaes "Péar" (saliti per primi lungo la chilometrica cresta sud, il 10 agosto 1919); il triestino Giorgio Brunner (primo a salire da solo e d’inverno, il 27 febbraio 1941) e l'anziano amico Giulio, che nel 2000 - su mio suggerimento - collocò sulla sommità il primo libro di vetta.
Ciao, cara Punta Nera!

18 feb 2022

"Don Claudio e la luna", un ricordo del "Prete Volante"

“Don Claudio e la luna” di Fabio Bristot “Rufus”, edito da DoloMedia di Belluno nell’autunno 2021, propone il ricordo di Don Claudio Sacco Sonador di Dosoledo, scomparso il 2 dicembre 2009 sotto una valanga, che lo travolse mentre scendeva al chiaro di luna dalla piramide erbosa e di solito mansueta del Monte Pore, presso il Passo Giau. Il religioso fu ritrovato soltanto tre giorni più tardi, dopo una ricerca complessa e impegnativa, che coinvolse numerose Stazioni del Cnsas, gruppi e volontari.
La croce dedicata nel 2010 a Don Claudio,
lungo la salita al Monte Pore
 

Il rinvenimento dello sfortunato sacerdote fu però agevolato dal fatto che “Rufus”, che faceva parte dei soccorritori intervenuti, era venuto in possesso di alcune foto (presenti nel libro), scattate verso il Pore dal Passo Giau dal fotografo dilettante Virgilio Sacchet, proprio la sera del 2 dicembre, senza minimamente sapere che cosa e - soprattutto - chi stesse riprendendo nei suoi ultimi istanti di vita terrena.
Nell’introduzione, Bristot – che ha scritto il libro assolvendo a un debito interiore, di memoria e commossa gratitudine verso Don Sacco - spiega: «Questo scritto non è una biografia quanto, piuttosto, il tentativo di far conoscere il messaggio di don Claudio perché la narrazione, pur con tratti a volte magari imprecisi, vorrebbe raccontare della sua “caratura”, vorrebbe accompagnarci ancora una volta nella sua stessa vita». E poi: «Ho voluto tratteggiare non solo il sacerdote, ma anche, come mi sono detto in tutti questi anni, l’uomo con le vesti di sacerdote, la cui l’umanità e la cui caparbia volontà di essere con carità tra gli uomini rimangono i tratti salienti».
I 16 capitoli del libro, la cui lettura commuove soprattutto chi ebbe familiarità col sacerdote, ripercorrono e uniscono le esperienze di un vulcanico educatore, missionario, musicista, alpinista e sciatore (detto il "Prete Volante"), che negli anni ‘70 fu cappellano a Cortina e si distinse in impegnative scalate e discese sci alpinistiche, e dell’autore, iscritto al Cnsas dal 1994, che nell’ambito del soccorso in montagna ha coperto vari incarichi dirigenziali locali e nazionali, ed è tuttora attivo su vari fronti.
Patrocinato dal Comune di Comelico Superiore, dalla Regola di Dosoledo, dalle Regole d’Ampezzo e dalla Parrocchia–Decanato di Cortina, nonché da alcune ditte bellunesi, il libro ricorda a tutti i lettori un grande appassionato e cantore della montagna. Come ha scritto il fratello Don Sergio nel saluto iniziale: «Non cesseremo mai di ringraziare l’autore per questa sorpresa che ha rinnovato ricordi e rimpianti, mitigati questi dalla certezza che il nostro Don Claudio, dal cielo, forse fischiettando il motivetto che ha scritto quella notte sul libro di vetta, continua ad amarci ed è sempre vicino a noi.»
Quando Don Claudio scomparve, chi scrive "vantava" un vecchio credito col "Prete Volante", conosciuto a Cortina negli anni dell’adolescenza. Il sacerdote, infatti, mi aveva promesso la salita dello Spigolo Jori della Punta Fiames, in premio per il primo esame che avessi superato all'Università. Il primo esame lo superai nel marzo 1978, ma sullo spigolo non ci legammo mai. Quando la notizia della valanga si diffuse in paese, mi tornarono subito in mente due episodi: la promessa dello Spigolo fattami oltre trent'anni prima sotto il nostro campanile, e la salita della ferrata Strobel della Punta Fiames, che avevo percorso col Don e altri ragazzi, all'insaputa dei miei famigliari, nel settembre 1972.
Il Signore ha chiamato anzitempo a sé, in una notte di plenilunio, quel sacerdote alpinista e spericolato sciatore: oggi, come altri paesani, ne porto un affettuoso ricordo, ravvivato da questo bel libro.

12 feb 2022

Il "Compendio di storia ampezzana" è di nuovo in libreria

Il "Compendio di storia ampezzana", da poco nuovamente disponibile in libreria, ripropone in veste  rinnovata e arricchita da numerose immagini in parte inedite, il Compendio omonimo, che il professor Giuseppe Richebuono (1923-2020, storico e divulgatore esemplare per serietà, al quale Cortina deve molto per quanto ha studiato e scritto in mezzo secolo) pubblicò nel 1981.
Secondo la premessa, il lavoro è rivolto “ai frettolosi che non hanno il tempo e la voglia di studiare le 950 pagine del volume (Storia d’Ampezzo, 3^ edizione, La Cooperativa di Cortina, 2008), ai turisti di passaggio che desiderano informarsi per sommi capi sulle vicende della Regina delle Dolomiti attraverso i secoli.”
In 109 pagine si dipana il ritratto di una comunità dalle origini ai giorni nostri, attraverso una serie di fatti e personaggi che inducono a riflettere sulla sua identità. Dopo una pluriennale analisi delle fonti, lo storico ci guida con mano sicura nelle tormentate vicende di una vallata di confine, spaziando dall’epoca preromana ai Romani, poi al periodo della dominazione Longobarda e Franca, all’epoca del Patriarcato d’Aquileia; per esaminare quindi il periodo in cui furono i Veneti a controllare la valle, fino allo stacco del 1511 che segnò il passaggio ai 407 anni di dominio austriaco, con tre secoli d'autonomia, le guerre napoleoniche del 1809-1814 (cui Richebuono dedicò anche un saggio ad hoc), e la Grande Guerra, tramonto di un Impero, di un’epoca e di tante certezze.
L'ultimo capitolo è dedicato al passaggio all'Italia nel 1918; esplora quindi il periodo fascista e si conclude nell’epoca attuale. Non mancano considerazioni sul futuro della comunità ampezzana, sempre più sospesa tra la modernità e la tradizione, la conservazione dei principi di base della vita alpina e l’omologazione culturale e identitaria.
Il volume, di lettura scorrevole ed esaustiva, fa conoscere il divenire di un popolo tra gioie, dolori, indifferenza e speranza. Cortina ha attraversato compatta la 1^ guerra mondiale, alla quale diede 140 suoi figli, poi la 2^, lo stravolgimento dovuto all'imporsi del turismo quale preponderante fonte di vita, e ora affronta i pesanti dubbi legati al futuro dell’ambiente, della comunità e dei suoi valori fondanti.
Il progresso inarrestabile chiede le sue "vittime" sacrificali e – secondo l’autore - gli abitanti della “Regina dei Monti Pallidi” dovrebbero anche per questo restare fedeli alla propria terra e a secoli di tradizione; “con l’impegno concorde di tutti i residenti sapranno realizzare un paese ideale, in un futuro che speriamo sia pacifico, florido ed appagante.
È il monito, che si spera non resti inascoltato, del professore cittadino onorario d'Ampezzo, al quale va un pensiero di riconoscenza, mantenuto vivo da questo libro meritoriamente voluto dalla Cooperativa di Cortina.

24 gen 2022

Novità libraria: "Bondì Dolomites. Gente dei Monti Pallidi. Vita Cultura Ingegno"

"Bondì Dolomites" è un ponderoso volume (quasi 500 pagine per 2,8 kg di peso), illustrato da moltissime immagini spesso inedite e uscito poco prima di Natale da Nuovi Sentieri Editore di Belluno.
L'opera nasce da un’iniziativa di tre persone, di provenienza e formazione diverse: Alfredo Weiss, amministratore pubblico e privato fassano e storico Presidente della Marcialonga di Fiemme e Fassa; Renato Constantini Ghea, tipografo e albergatore ampezzano trapiantato a Vigo di Fassa, e Bepi Pellegrinon, alpinista Accademico del Cai e scrittore di Falcade, editore dell’opera.
Il trio ha unito le proprie forze dopo una constatazione e con un proposito, che riassume così: “Scorrendo l’infinita bibliografia esistente sul mondo dolomitico c’eravamo accorti come fosse carente l’approfondimento legato alla quotidianità della vita della gente, alle esigenze di queste fiere popolazioni che, giorno dopo giorno, epoca dopo epoca, sono riuscite a vivere in questi luoghi tanto belli quanto difficili e inospitali. Le ricerche, effettuate con la preziosa collaborazione di tanti studiosi ed appassionati, sono state incentrate sull’ingegno e sull’intelligenza espressa, unitamente ad un ammirevole talvolta smisurato coraggio, da questi uomini e donne che seppero trovare le giuste vie per vivere nelle ristrettezze dell’ambiente montano.”
Avvalendosi dei contributi di circa 50 autori esperti in varie materie, in 50 capitoli il volume spazia a giro d’orizzonte sulla vita, la cultura e le espressioni dell’ingegno proprie delle genti dei Monti Pallidi, da Fassa ad Ampezzo, da Badia al Comelico, dall’Agordino alla Val Gardena, da Zoldo al Bellunese. Ed il sottotitolo “Gente dei Monti Pallidi. Vita Cultura Ingegno”, inquadra pienamente i contenuti; alle comunità che abitano il territorio dolomitico, divise tra due regioni e tre provincie, nonché a coloro che tra le Dolomiti vengono da tutto il mondo come ospiti, la pubblicazione si indirizza con uno spirito aperto e un intento divulgativo.
“Bondì Dolomites” è ricco di informazioni, curiosità e analisi storiche, linguistiche e culturali di livello, intese ad approfondire e far apprezzare l’anima del popolo “ladino”, che per secoli si è sempre impegnato e oggi continua nel coltivare e preservare un ambiente prezioso e benedetto. Il libro parla di alpinismo, architettura, arte, artigianato, cooperazione e mutualità (principale partner dell'iniziativa è la Cassa Rurale Dolomiti-Credito Cooperativo Italiano), folklore, gastronomia, geologia, letteratura, musica, ospitalità, sport, storia, turismo, usanze e altre poliedriche sfaccettature di un mondo antico, sospeso tra tradizione e modernità, conservazione e omologazione, che riesce ancora a bilanciare discretamente, per conservare il bene unico del territorio e far sì che le generazioni possano sempre viverci, valorizzandolo anche per il futuro.
Un plauso va fatto alla grafica e stampatrice, la Tipografia ampezzana Print House, e un piccolissimo rilievo su alcuni refusi, certamente fisiologici in un lavoro di questa portata, ma che non sono sfuggiti ai lettori più pedanti!

8 gen 2022

Un ricordo della "mia" Torre Wundt

Un’immagine di una delle nostre visite all’amata Torre Wundt, che risale all’estate 1984, mi è inaspettatamente giunta ad inizio anno dal compagno di tante avventure Alessandro, che ho rivisto in dicembre in un locale del Cadore, luogo in cui si è trasferito dopo anni vissuti a Roma.
L’immagine ha riportato ancora una volta alla mente la quasi maniacale affezione da dilettante ad una cima e una via dolomitica classica: la fessura Mazzorana-Del Torso sulla parete sud della Torre Wundt, tra i Cadini di Misurina.
Alessandro, Maria Neve, Andrea, Ernesto (disteso) in vetta

La via fu tracciata il 7.9.1938 dal giovane Piero Mazzorana, nato a Longarone e guida in Auronzo dal 1936, insieme al friulano Sandro Del Torso, compagno fra gli altri di Comici, Maraini e Piaz. La via sulla Wundt fu solo una delle cinquantaquattro (secondo Severino Casara; forse qualcuna in più, comprese le varianti) ascrivibili alla guida sulle Dolomiti, dal Sella fino ai Brentoni, e si può ritenere una delle sue più conosciute e ripetute. Mazzorana, che per un quarto di secolo custodì il rifugio Auronzo, si è spento a Merano, appena settantenne, nell’aprile 1980.
La storia dell’itinerario, breve e piacevole ma non banale, si compendia in date e nomi non tutti noti, qui raccolti per puro gusto statistico; 7.9.1938: prima ascensione; 14.8.1942: seconda, Mario Pavesi e Cesare Carreri di Mantova; 25.7.1954: variante, Bruno Crepaz e Piero Zaccaria di Trieste; 13.3.1956: prima invernale, Bruno Baldi e Fabio Pacherini di Trieste; 10.8.1972: altra variante, Diego Zandanel, guida di Cortina, con Giuseppe Buleghin di Milano; 12.8.1981: prima delle salite di chi scrive, con Mario Sanvito di Bologna; estate 1986: riqualificazione delle soste e della via di discesa, Florian Pörnbacher, attuale gestore del rifugio Fonda Savio.
Sulla fessura, che si eleva a soli dieci minuti dal confortevole rifugio, si avvicendano sicuramente sempre cordate da ogni dove. Riguardando la fotografia, in cui siamo in cima con Alessandro, Maria Neve e Andrea, il pensiero è corso di nuovo alle mie 18 salite nel corso di un quindicennio; sotto sotto, spero che i visitatori odierni della Mazzorana ricevano dalla via la stessa gratificazione che fu nostra in quegli anni spensierati, e veniva spesso coronata da un momento simpatico.
Entrando al rifugio per la bevuta finale, i gestori mi accoglievano quasi sempre così: “Sei venuto su per la tua Torre?”

Sachsendank 1883 Nuvolau 2023. 140 anni di storia e memoria

Ernesto Majoni e Roberto Vecellio, Sachsendank 1883 Nuvolau 2023. 140 anni di storia e memoria , pp. 96 con foto b/n e a colori, Cai Cortina...