22 mar 2022

Col Siro, o Crepo de ra Ola, cima verde

È certamente più intrigante l'antico nome di «Crepo de ra Óla», di cui mi parlò per la prima volta Alberto Zangiacomi, già guardiacaccia e profondo conoscitore del territorio di Cortina, rispetto a quello corrente di «Col Siro», che sa un po’ di dedica a qualche persona per chissà quali ragioni o meriti.
Il Col in questione è un rilievo fatto a cupola e quotato 2300 metri, che si eleva isolato sull’Alpe di Faloria; verde di magro pascolo sul versante che guarda le cime del Sorapìs, sul lato opposto presenta invece timidi affioramenti rocciosi.
Il rilievo è una meta poco nota, apprezzata da pochissimi nonostante lo si sfiori traversando da Faloria verso il lago del Sorapis e si possa salire in cima con una semplice quanto piacevole deviazione, anche sci alpinistica, che prende avvio da Forcella Faloria, soprastante la Capanna Tondi.
La cupola del Col Siro o Crepo de ra Ola (foto E.M.)

Non varrà forse la pena partire da lontano con l’unico scopo di salire il Col, sicuramente esplorato già in tempi remoti da cacciatori, pastori, topografi; fatti i conti, però, la cima ha una simpatica individualità che merita la visita. Fra diverse occasioni di salita, l’ultima con Mirco – arrivato apposta da Treviso per "spuntare" il Col Siro dal suo carnet dolomitico –, ricordo quella di 14 anni or sono. In una domenica di luglio guidammo lassù quattro amici appassionati, stimolati dall'aver udito quell'oronimo particolare, ed in cima ritrovai intatta la rustica croce di rami di mugo, che Iside ed io avevamo eretto nella nostra precedente ascensione.
Saliti e scesi dal rilievo, chiudemmo la giornata rientrando per la familiare Val Orita. Ma prima, nel riprendere la via di Faloria avevamo incrociato una famiglia di gitanti (sentendoli parlare, mi feci l'idea che fossero catalani), che ci osservava incuriosita. Dietro di noi, anche i quattro si presero la briga di salire sul Col, per godersi la magnifica vista che esso offre sul circondario dolomitico.
Così, in una giornata d'estate l'umile montagna ampezzana fu percorsa da dieci paia di scarponi: a suo modo, un primato che potrebbe essere difficilmente eguagliato, per un culmine secondario e ignorato da tutte le pubblicazioni. Ma non da chi scrive, secondo cui il Col Siro, o meglio il Crepo de ra Ola, ha anche lui qualche cosa da dire.

15 mar 2022

Sul Diedro della Romana in Cinque Torri

La Romana, una delle guglie riunite nella seconda delle Cinque Torri d'Averau, è celebre tra gli appassionati per la via "del diedro". L’itinerario, molto bello e ripetuto, supera sul lato nord l'intera spaccatura che divide la Romana dalla limitrofa Torre del Barancio.
Il Diedro della Romana (foto E.M., 2009)
Alto circa cento metri e percorribile in un’oretta, il diedro - così netto da sembrare quasi tagliato con una spada - è al centro di uno dei piccoli dubbi storici che attendono una soluzione univoca. Nelle fonti, ultimo il manualetto «Cinque Torri. La palestra degli Scoiattoli» di Franz Dallago e Sandro Alverà risalente a 35 anni fa, si legge che il diedro fu superato nell’estate 1944 da alcuni membri della Società Scoiattoli, attiva da alcune stagioni nella scoperta delle montagne native.
Non è ancora stato possibile trovare la data esatta, e dare un volto ai ragazzi (ché tali erano, gli Scoiattoli dell'epoca) scopritori di quella alternativa sulla Torre, che col diedro offre il meglio di sé. Nella pratica, la questione ha un'importanza davvero minima, ma incuriosisce ugualmente il ricercatore e rappresenta un enigma. In effetti, la via è una delle classiche più in voga delle Torri, tra quelle d’impegno contenuto e alla portata anche di ragazzi come eravamo noi, che nel tempo migliore la salimmo più volte.
La roccia del diedro è solida e lisciata da decenni di passaggi; l'assicurazione e le fermate vengono garantite da chiodi cementati; la discesa si risolve in un’unica, lunga doppia sul versante opposto, per giungere finalmente al sole: e che cosa potevamo volere di più?
Gli Scoiattoli innominati che nell’estate di settantott'anni fa salirono il verticale e atletico diedro, non sapevano di avere scoperto un'occasione di sano trastullo su una torre altrimenti un po’ anonima, battezzata – secondo una ricerca – non nel 1912, ma già alla fine del secolo precedente, dalla guida Zaccaria Pompanin con un cliente ignoto e rimasta sempre nell’ombra.
Oggi le testimonianze dirette, utili a riconoscere quei ragazzi, si sono rarefatte, visti i decenni trascorsi dalla prima salita; il ricercatore però non demorde e insisterà nel  cercare un capoverso, un paragrafo, una riga per estrarre la data e i nomi che mancano nelle fonti che ha consultato. Sarebbe un bel colpo, anche per la storia delle torri d’Averau.

6 mar 2022

Torre del Barancio: la sua storia si arricchisce

Interessarsi di aspetti minori e dimenticati della storia dell’alpinismo, soprattutto di quello svolto in valle d’Ampezzo, porta spesso ad assumere episodi, fatti, notizie di valore forse microscopico, ma di buon interesse per la conoscenza dei luoghi. E' il caso della Torre del Barancio, la mediana delle tre punte che formano la torre Seconda d’Averau, che si chiama così da tempi lontani per il ciuffo di mughi che ne caratterizza il culmine.
Torri Lusy, del Barancio e Romana

Primo a salire la torre fu Zaccaria Pompanin "de Radéschi" con clienti, alla fine del XIX secolo. La via da lui seguita per raggiungere quella sommità e l'adiacente Torre Romana, il camino sud (buio, muschioso e di scarso pregio estetico), oggi viene poco praticata. Altrettanto non si può dire invece per lla parete nord.
Scalata il 7 settembre 1934 dalle guide Ignazio Dibona Pilato (del quale è ricorso in gennaio l’80° della scomparsa, sotto una valanga sul Gran Sasso) e Pietro Apollonio Longo con il cliente Ferdinando Stefani, compagno di cordata anche di Severino Casara, la via fu pubblicizzata dalla Rivista Mensile del Cai l’anno seguente. Poco più di cento metri, solida, fredda a causa dell’esposizione e con difficoltà sostenute, la parete fu salita con sedici chiodi; nel corso degli anni è divenuta famosa, e oggi è sempre apprezzata e ripetuta.
Da una cronaca semiseria redatta da Giancarlo (Ianco) e Gherardo (Ghero) Melloni di Milano, che nei primi anni ‘40 arrampicavano spesso in Ampezzo con le guide più in voga del periodo, estraiamo un episodio. Il 9 agosto 1942 i fratelli neppure ventenni, insieme al terzo fratello Andrea, di quindici anni, al padre e all’amico «Gasto», in tre cordate condotte rispettivamente da Celso Degasper, Giuseppe Dimai e Angelo Verzi (stranamente, mai saliti lungo la via), furono i probabili primi ripetitori della Dibona; su di essa dissero di aver trovato un chiodo con un moschettone, indice forse di una ritirata.
Una parte della comitiva concluse poi la giornata salendo anche la via Dibona-Girardi-de Zanna sulla parete N della Torre Grande (1910), impegnativa com’era nello stile del grande Angelo Pilato. Anche questo è un minuscolo frammento di storia, che può servire per arricchire la cronologia delle amate Cinque Torri!

Sachsendank 1883 Nuvolau 2023. 140 anni di storia e memoria

Ernesto Majoni e Roberto Vecellio, Sachsendank 1883 Nuvolau 2023. 140 anni di storia e memoria , pp. 96 con foto b/n e a colori, Cai Cortina...