30 dic 2020

La variante della Dimai sulla Fiames: curiosità storiche

Chiudo l'anno con un post di quelli che mi piacciono di più: un tentativo di ricostruzione storica di parte di una via alpinistica delle nostre montagne. Buon 2021 a tutti i lettori.
Me ne aveva già accennato tempo fa Franco, guida alpina e cultore di storia ampezzana; di recente ho poi riscoperto una fonte, che mi ha indotto a saperne di più. 
Di seguito pertanto cercherò di chiarire quello che giudico un minuscolo "mistero" di storia alpinistica: la paternità della «Variante» alla via Dimai-Heath-Verzi sulla sud-ovest della Punta Fiames, classica aperta 120 anni fa ed ancora oggi amata e frequentata. La via, che sale lungo la vasta parete alla ricerca delle minori difficoltà, nella 10^ cordata nasconde il «passaggio chiave»: un camino liscio, un po' strapiombante e spesso bagnato, che l'aneddotica ricorda come «el camin de Frasto» per una tragicomica vicenda che vi accadde nel 1905.
Per evitarlo e semplificare la via, che veniva percorsa spesso anche in discesa, quando non c'era la ferrata Strobel e le condizioni della normale (facile, ma esposta a nord) non erano sicure per la neve ed il ghiaccio, poco dopo l’apertura fu ideata una variante che dribbla il tratto più difficile della Dimai lungo una serie di camini e vi si riunisce dopo l’11^ cordata. 
Nella loro guida del Pomagagnon-Cristallo del 1981, Jurgen e Angelika Schmidt assegnarono alla variante un dislivello di 80 metri e uno sviluppo più che doppio, con difficoltà inferiori rispetto al camino Dimai. Nel 1908 de Falkner, in «Le Dolomiti del Cadore», aveva spiegato che: «...oggi si preferisce una variante per la quale si raggiunge la via descritta circa a metà parete, evitando l’esposta traversata». Da questo inciso si deduce che, sette anni dopo la conquista della parete, la variante già esisteva ed era utilizzata. 
La relazione e lo schizzo della variante non mancano nel «Berti» dall’edizione del 1928 all’ultima, del 1971: per l'occasione, però, mi sono spinto oltre. Consultando «Dolomiti di Cortina d’Ampezzo», guida firmata nel 1925 da Ugo di Vallepiana con note di Antonio Berti e Federico Terschak, forse ho trovato il busillis: la variante, che «...serve per scansare il camino e le pareti prima e dopo la grotta...» sarebbe stata aperta da «Piaz, Rizzi». 
Il passaggio del "Camin de Frasto" (foto F.G.)
Al riguardo è stato logico pensare alle guide fassane Tita Piaz (1879-1948) e Luigi Rizzi (1869-1948), che negli anni Dieci del '900 lavoravano molto anche fuori dalla valle nativa. La fonte scoperta mi ha incuriosito, soprattutto in ragione del fatto che, nonostante numerose salite della via Dimai negli anni della gioventù, ignorai sempre la «Variante», e non pensai mai di sperimentarla, anche soltanto per fare qualcosa di nuovo.

22 dic 2020

Vagabondando fra i nomi delle montagne d'Ampezzo

Chi scrive ha nel cassetto, in attesa di tempi migliori, una collezione personale di toponimi ed oronimi del territorio ampezzano che vantano origini post-belliche o alpinistiche, per cui in genere non si perdono nelle tenebre medievali e distinguono forcelle, rifugi, vette e luoghi vari scoperti in conseguenza dell'utilizzo turistico delle nostre montagne.

Finora nella collezione se ne sono accumulati oltre 120, a partire da quelli coniati nel 1860-70 da Paul Grohmann, il “primo salitor delle montanie d'Ampezzo” come ebbe a definirlo una delle sue guide, Angelo Dimai Deo senior, e fino a tempi recenti.

Alcuni oronimi e toponimi sono legati a peculiarità morfologiche del territorio, altri a persone - alpinisti o meno - che ebbero qualche relazione con i luoghi o con la storia locale; altri ancora vanno ricondotti ad uomini o cose di cui - man mano che il tempo avanza - è sempre più complesso ricostruire i contorni.

Punta Erbing, oronimo coniato nel 1905 (foto E.M.)

Diversi nomi erano ignoti nella valle d'Ampezzo prima della Grande Guerra (ad esempio, sono di formazione bellica almeno: Becco Muraglia, Castelletto, Col Gallina, Col Pistone, Testaccio); altri sono nati negli ultimi decenni (Guglia Raffaele, Torre Elisabetta e Torre Paola sono creazioni della guida Franz Dallago poco più che "adolescenti", del 1996), altri ancora derivano da toponimi ladini originali "addolciti" ad uso turistico (Cima Prati, Ra Valles, Rio Gere, Forcella Rossa, Vitelli). Tutti insieme formano un gruppo compatto e abbastanza folto di termini, e non tutti sono stati analizzati a fondo dagli autori e dai testi che si sono occupati della toponomastica ampezzana.

Insomma, lavoro da fare al riguardo ce n'é ancora, e sicuramente nel prosieguo delle indagini - che contiamo di fare, complice l'attuale maggior disponibilità di tempo libero - usciranno magari notizie e curiosità stimolanti per chi attende a questi studi, preziosi e particolari.

18 dic 2020

Quarant'anni fa sulla Cima, o Torre del Lago

Ah, quanti ricordi! Negli anni Ottanta, fra tante altre, salimmo più volte una via che, per estetica e qualità, ci parve tra le più belle offerte di stampo classico sulle montagne intorno a Cortina.
Il giudizio, comunque personale, viene anche dal fatto che, lungo l’itinerario e su quella cima, solo una volta ci capitò di incrociare altre persone. Mi riferisco al diedro O.S.O. della Cima del Lago (o Torre del Lago?: la via termina sulla cresta fra le due cime, che di solito non si salgono!) nel gruppo di Fanes, che guarda il Lago del Lagazuoi.
L’itinerario fu tracciato il 2.8.1954 dai romani Dall’Oglio, Consiglio e Micarelli, mentre compivano una campagna esplorativa nella zona. A lungo trascurato, fu riscoperto da Enzo Cozzolino di Trieste, che lo salì - per primo in solitaria - intorno al 1970; da allora è stato ripetuto, incluso in antologie di scalate scelte e giudicato interessante e piacevole.
La via si sviluppa per 400 metri: i primi 150 hanno difficoltà limitate e interesse relativo, mentre il resto si svolge su roccia solida, e sono sei cordate non oltre il 4°+. A quel tempo nel diedro i chiodi erano molti meno degli undici usati dai primi salitori, ma comunque bastevoli, perché ci si assicurava naturalmente un po’ dappertutto.
La mia prima salita personale del diedro risale al 26.9.1980, quando ci andai con Enrico. Nell'agosto 1981 vi tornai da primo con Mario di Bologna, e lasciai lassù un libretto di via; nel 1985 con Sandro superammo il diedro, un tiro a testa, in un’ora e mezza e infine nell’ottobre del 1986 vi tornai con Nicola, ancora da primo.
21 luglio 1985, con Sandro
A queste salite va sommato anche un tentativo, "fallito" ai piedi del tratto superiore per i sassi smossi da una cordata che ci prevedeva, compiuto con mio fratello e due amici ai primi di ottobre 1982. Il ricordo del diedro, tecnico ma mai snervante, in un ambiente maestoso ma non opprimente, con una discesa da scoprire ma non complicata, dopo un quarantennio dal primo approccio è sempre vivo e non svanisce.

8 dic 2020

Il Calvario della Punta Fiames nelle Dolomiti

L'appassionato che conosca la Punta Fiames, cima emergente dal profilo della valle d'Ampezzo verso nord-est, quasi certamente conoscerà anche il "Calvario". Nota agli scalatori perché è utile soltanto a loro, è la traccia, oggi più definita ma ancora un po' arcana, che unisce le pendici cosparse di mughi del Pomagagnon, dette “Cojinàtes”, con gli attacchi degli itinerari sulla parete sud-ovest della Punta: le classiche Dimai e Jori, la Direttissima, la Centrale, la moderna Paolo Rodèla.

Per capire il perché del nome di Calvario, assegnato alla traccia in epoca e da persone ignote e trasmesso solo oralmente, si provi a percorrerlo in un giorno di sole; data l'impietosa esposizione a sud, risulterà torrido e faticoso. Si aggiunga la mancanza di acqua lungo l'accesso, che dalla zona ospedaliera di Cortina, base di partenza per molti scalatori, richiede oltre un'ora (se non si sbagli sentiero), e il quadro è completo.

Il Calvario, non facile - e in ogni caso, illogico - per i semplici escursionisti, poiché ad un certo momento la traccia è sbarrata da un camino di 20 m, di roccia buona ma verticale e sprotetto (3° inf.), fu scoperto dalle guide Antonio Dimai e Agostino Verzi ad inizio secolo, mentre perlustravano la parete cercando la prima via, sulla quale poi accompagnarono il 7 luglio 1901 il cliente J.L. Heath.

Desta senz'altro ammirazione l'intuito dei due ampezzani, che almeno fino alla Grande Guerra formarono una solida e celebre cordata, nell'insinuarsi fra ghiaie, mughi, rocce e terra verso la terrazza inclinata emergente sullo zoccolo, dalla quale iniziano le vie.

Il Calvario prende avvio ai piedi della Punta della Croce, un po' spostato rispetto alla verticale della Fiames; sale sinuosamente, piega verso la Fiames, valica il canale che la stacca dalla Punta della Croce e continua infine sullo zoccolo fino ad una macchia di ghiaie che spicca già da Cortina.

Punta Fiames e Calvario (foto I.D.F. novembre 2020)

Il primo tratto del percorso, che nasce dal sentiero di Forcella Pomagagnon ai piedi del grande ghiaione e traversa dapprima quasi in piano superando vari canali detritici, che ogni anno mutano forma e aspetto, è agevolato da qualche segnavia, che rassicura chi non conosce la zona.

Il 16 dicembre 1984, una giornata tiepida e quasi estiva, salii il Calvario con Roberto, che desiderava conoscerlo. Giunti alla macchia di ghiaie, facendo merenda gli illustrai il percorso della soprastante via Dimai, che quell'anno avevo salito due volte; dopo un bagno di sole, prendemmo contenti la via di casa e per pranzo eravamo a tavola.

Ricordo come molto piacevole quella pur "illogica" divagazione; avendo l'attrezzatura, sarebbe stato bello proseguire per la Dimai, una via che - per chi crede a queste cose - oltre ad un valore alpinistico, ne ha anche uno storico e ambientale. Dopo molti anni, la ricordo bene.

24 nov 2020

L'enigma della Torre Fragele

Da topo di biblioteca, sfoglio spesso pubblicazioni moderne e antiche che, oltre alla pratica sul campo - ormai purtroppo molto ridotta - alimentano le informazioni sull’ambiente e la storia dolomitica e stimolano a una formazione permanente, che investe anche peculiarità storiche ed ambientali minori. 
Nella guida delle Dolomiti Orientali che il medico ed alpinista veneziano Antonio Berti diede alle stampe per la prima volta nel 1908, un breve paragrafo mi ha incuriosito. 
Vi ho trovato, infatti, un oronimo, «Torre Fragele», che seppur esterno al territorio ampezzano riguarda una guida di Cortina che amò in particolare il gruppo, ancora poco esplorato, dei Cadini di Misurina: Giovanni Cesare Siorpaes Salvador (Jan de Santo). Sconosciuto ai più, l’oronimo si riferisce ad una guglia di soli venticinque metri d'altezza, che campeggia sulla Forcella della Neve fra i rami «della Neve» e «di San Lucano» dei Cadini, molto frequentata da escursionisti e scialpinisti.
Il 21 luglio 1900, la piccola torre fu salita e battezzata dalla ventenne baronessa ungherese Ilona von Eötvös, appassionata delle Dolomiti come il padre Loránd e la sorella maggiore Rolanda, e da «Jan», una delle guide preferite della famiglia. Berti descrisse la salita come difficile, ma di essa non ho trovato traccia in alcuna delle mie solite fonti, se non nella preziosa edizione della guida del 1928. 
Giovanni Cesare Siorpaes Salvador,
più noto come Jan de Santo

Non comprendendo la radice dell’oronimo, mi sono appoggiato a Wolfgang Strobl di Dobbiaco, storico esperto del turismo e dell’alpinismo dolomitico, che sta studiando la famiglia von Eötvös, protagonista di tanta storia otto-novecentesca tra Dobbiaco, Cortina e Auronzo. 
L'amico ha risolto prontamente il caso, ricavandone la soluzione da un articolo del 1902 dell'alpinista germanico Adolf Witzenmann. Fragele, termine tedesco-tirolese di cui non è facile decifrare l’etimologia, non era altro che il nome del cane di Jan de Santo...
Quel giorno di centovent'anni fa l’animaletto, giunto in forcella zampettando accanto alla guida e alla cliente e lasciato in sicurezza su un terrazzino, fu testimone della salita, cosicché uno dei due alpinisti volle battezzare la torre in suo onore.

19 nov 2020

Gli inglesi e e la scoperta delle Dolomiti

Ah, questi inglesi! Se non avessero passato la Manica a metà dell'800 in direzione delle Alpi, forse sarebbe arrivato qualcun altro; comunque, il grande merito della rivelazione dei Monti Pallidi, delle loro valli e dei paesi che le popolano, appartiene senza dubbio ad inglesi, scozzesi e irlandesi.
Tra i primi venuti a curiosare, dopo Gilbert e Churchill, ci fu una donna, Amelia Edwards, una viaggiatrice che però non scalò le cime. Nel 1857, John Ball si aggiudicò il Pelmo e nel 1860 la Marmolada di Rocca, e poi via via, in ordine alfabrico : Amery, Broome e Corning, Freshfield, Heath, Phillimore e Raynor, Lovelace, Tomasson, Tuckett, Wall, Withwell, Wyatt,  Tomasson e tanti altri... Fino alla Grande Guerra, perché dopo di essa il mondo cambiò faccia, forestieri ne vennero ancora, ma lo spirito di conquista ormai si era affievolito e cedette il posto ad altri alpinismi. 
I britannici hanno lasciato traccia ovunque nelle Dolomiti, dal Brenta alle Pale, e qui da noi in quasi tutti i gruppi montuosi. Nel 1890 Jones e poi Cockburn salirono, con la giovane guida Constantini, due cime del misconosciuto Pomagagnon, la Croda Longes e la Croda del Pomagagnon. 
Grandi cose fecero poi a fine secolo Phillimore e Raynor sulle Pale, sul Catinaccio, in Tofana, Croda da Lago, Cristallo, Pomagagnon, Antelao, Tre Cime. I due lasciarono i loro nomi a diverse vette e vie: ricordiamo per curiosità il piccolo Ago Inglese, lungo l’accesso alla via normale della Croda da Lago (forse salito da Phillimore, Dimai e Verzi nel 1899, tornando dalla prima del Campanile Federa). 
Il Pomagagnon da Cortina (foto I.D.F.)
La quinta delle 5 Torri, l’Inglese, fu conquistata da Wyatt con Menardi e Maioni nel 1901; in Tofana ci sono due Vie Inglesi, ma la più nota è quella sulla parete SO della Tofana di Mezzo (Phillimore e  Raynor con Dimai e Colli, 1897); sulla Costa del Bartoldo c’è il "Passo Phillimore" sulla parete sud, superata dagli indomabili Phillimore e Raynor con Dimai, 1899; sul Piz Popena c’è una via Inglese sullo spigolo sud, opera di Phillimore, Raynor, Dimai, Innerkofler e Pompanin del 1898, e così via. Altri ne hanno già scritto e non la vogliamo fare troppo lunga: resta il fatto che, per le Dolomiti, le cordate venute da oltre Manica furono fondamentali e indimenticate. 

15 nov 2020

Quattro passi sul Lago Bianco

«Lago Bianco»: quanti possono affermare di conoscere quel luogo a Cortina? Eppure si discosta solo di pochi metri dalla strada statale e da un sentiero assai trafficato; soltanto che, non avendo i requisiti del lago da cartolina, è del tutto ignorato.
Iniziando dal nome, che è particolare poiché lo specchio lacustre così denominato... in realtà non esiste più, ormai da molto tempo.
Ci troviamo a circa 1500 m., sulla destra orografica della SS 51 a sud della sella di Cimabanche e all’imbocco della carrareccia che sale verso Lerosa. Secondo de Zanna-Berti, il lago fu battezzato «Bianco» per il limo che ne copriva il fondo e affiora ancora a tratti, dove la superficie è meno colonizzata da una caratteristica, magra vegetazione, forse oggetto di analisi da parte di chi ne sa più di noi.
Il Lago Bianco con il Knollkopf (foto E.M.)
Nella Grande Guerra ebbe un certo rilievo, poiché nei suoi pressi prendeva avvio una teleferica austriaca che saliva verso la sovrastante Punta Ovest del Forame de Fora. Inesorabilmente sommerso negli anni dalle colate detritiche scivolate dalla conoide di Cimabanche, oggi il lago si è convertito nella magra distesa che ci accompagna passando in automobile, e probabilmente pochi lo notano.
Sul lato a monte, tra la vegetazione il Parco Naturale delle Dolomiti d’Ampezzo ha allestito una mangiatoia per ungulati che, a giudicare dalle numerose peste riscontrate nei dintorni, certamente non mancano di visitarla.
Negli anni che furono, ovviamente distratti da obiettivi di maggior pregio, non avevamo mai considerato l’idea di impiegare pochi minuti per mettere i piedi sulla morbida superficie del lago che non c’è più; nella zona è il terzo, dopo il Lago Negro e quello di Rufiedo, entrambi posti sul lato opposto della SS 51 ed ormai quasi fusi tra loro.
In verità al Lago Bianco non ci sarebbe tanto da vedere, se non le erbe e gli arbusti che coprono la piana, una pozza dal fondo melmoso e giallastro che ricorda certi fanghi termali, e la visuale, aperta da un lato sugli scoscesi dirupi del Forame de Fora e dall’altro sul Col Rotondo dei Canopi, il Knollkopf dei pusteresi.
Però è un luogo singolare, tant'è che in un pomeriggio d'estate, passando da quelle parti, ci siamo concessi volentieri la visita di un angolo senza fama del nostro territorio, che non ci ha deluso.

11 nov 2020

Pfalzgauhütte, il rifugio dolomitico costruito quattro volte

L’8 agosto 1891, ai piedi del circo da cui escono le acque che alimentano il lago del Sorapis, scavato nella roccia e privo di emissari superficiali, attraversano poi sottoterra la soglia rocciosa del ripiano glaciale e confluiscono nella cascata del Pis (per questo, il soprastante massiccio roccioso si chiama «Sora-Pìs» e non «Soràpis»!) apriva le porte la Pfalzgauhütte. 
Terzo rifugio alpino d’Ampezzo dopo il Sachsendank ed il Tofana, posto a 1928 m. sul confine tra il Tirolo e l’Italia, il rifugio era stato promosso dal Club Alpino Tedesco-Austriaco di Pfalzgau, una cittadina del medio Reno. Vi si saliva, e ancora vi si sale, per almeno tre sentieri: da Federavecchia di Auronzo inerpicandosi a fianco della cascata; dal Passo Tre Croci, scavalcando lo zoccolo delle Cime del Lòudo con un tracciato facilitato in alcuni punti; dalle Crepedèles (oggi detti Tondi di Faloria), attraversando il Ciadin del Lòudo lungo un sentiero aperto nel 1903, munito anch'esso di qualche fune metallica. 
Il primo edificio non ebbe però fortuna. Trovandosi in una conca ombrosa e soggetta a grossi accumuli di neve (giusto un mese fa, l'11 ottobre, lassù se ne misuravano addirittura 65 centimetri!), nella primavera 1895 fu distrutto da una valanga, e subito spostato un centinaio di metri più a nord, in una posizione riparata. 
Il rifugio Pfalzgau,
con la Zesta sullo sfondo (archivio E.M.)
 
Nel 1913 però la capanna era di nuovo inagibile. Dopo la guerra fu assegnata alla Sezione di Venezia del Cai, che la ricostruì intitolandola a Cesare Luigi Luzzatti e la riaprì il 22 giugno 1924. Sulla parete della 2^ Sorella, proprio alle sue spalle, il 26/27 agosto 1929 i triestini Emilio Comici e Giordano Bruno Fabjan aprirono la prima via italiana di VI grado nelle Dolomiti. 
Ribattezzato nel 1939 Rifugio Sorapis in base alle leggi razziali, il Luzzatti non subì danni nel 2° conflitto mondiale e poté così riaprire nel 1947; il 18-19 ottobre 1959, però, fu vittima dell’ennesimo, inaspettato incendio. Rifabbricato per la quarta volta e aperto il 18 settembre 1966, contemporaneamente alle vie attrezzate che permettono di fare il giro del gruppo del Sorapis, è stato dedicato al veneziano Alfonso Vandelli.
Storica base per salire la Punta del Sorapis per l’antica via Grohmann, o per la più difficile via Müller, entrambe cadute nel dimenticatoio, da molti anni il rifugio è gestito da famiglie auronzane. 

1 nov 2020

Il segreto della Cima Cason de Formin

Negli anni Ottanta, percorremmo più volte la classica via aperta nel 1970 da Franz Dallago e Dino Constantini sul diedro O della Cima Cason di Formin, snella propaggine della Croda da Lago.

La prima salita si verificò a Ferragosto del 1982. Seguendo la relazione della guida “Berti”, trovammo poi subito il "segreto" per scendere dalla vetta: un sinuoso foro tra due massi, in cui ci si doveva infilare senza zaino e quasi trattenendo il respiro; era l'unica possibilità per schivare una zona di roccia friabile e malsicura.

Cima Cason de Formin dalla valle omonima
  (cartolina anni '30, raccolta E.M.)

Sfruttammo tranquillamente il foro dopo altre salite, fino al 1987. Quella volta ero con A.: ma, al momento di scendere… il foro non si trovò più! I massi che lo formavano, dopo secoli erano crollati uno sull’altro, e per risolvere la situazione si doveva uscire e affrontare una paretina esposta, più ripida di tutto il diedro sottostante.

Nulla di strano sulle montagne, dove fin dall'inizio dei tempi la morfologia cambia di continuo: una sorpresa però per noi, che ci eravamo abituati a gattonare ogni volta in un foro molto stretto, ma protetto e comodo. Sicuro non lo era: ma noi questo non lo avevamo previsto.

23 ott 2020

Ricordando Silvana Rovis

Da quindici giorni Silvana Rovis non è più tra noi. 
Silvana era tante cose: alpinista e sci alpinista orgogliosa delle proprie radici istriane; socia delle Sezioni del Cai di Venezia e di Fiume; socia accademica del Gism; confidente e amica di scalatrici e scalatori, artisti e scrittori di montagna, anche a Cortina, Ma anzitutto è stata per anni l’infaticabile Segretaria redazionale e memoria storica di “Le Alpi Venete”, il semestrale triveneto del Cai fondato nel 1947 da Camillo Berti, per il quale ha intervistato tanti rappresentanti di punta del mondo alpinistico, dando loro visibilità con uno stile fondato su competenza, discrezione ed equilibrio. 
Silvana Rovis a La Tor - Forni di Sopra,
7.10.2017 (foto I.D.F.)
Col marito Paolo Rematelli, istruttore di alpinismo e socio attivo di “Giovane Montagna”, Silvana era sempre presente agli incontri del Gism, al Film Festival di Trento, dovunque si potesse portare la voce, le idee e le esperienze delle donne riguardo alla Montagna. Fino al 1° incontro d'arte, poesia, letteratura e cultura “Le Dolomiti al femminile”, promosso da Bepi Pellegrinon sotto l’egida del Gism il 29 agosto a Cencenighe, in cui ricordò con accenti commossi la sua amica alpinista Bianca di Beaco, di Trieste. 
Ora nella casa di Paolo e Silvana a Mestre, tra tanti libri, riviste, fotografie, appunti e ricordi di vette e persone, mancherà la sua figura, la sua cultura della Montagna, la sua presenza gentile nei momenti ufficiali, importanti o lieti che radunano gli amanti delle crode. 
La Montagna, non solo triveneta, ha perso un'interprete entusiasta e combattiva, esploratrice delle cime del mondo ed autrice di interessanti pubblicazioni: in sintesi, una cara amica.

20 ott 2020

Il micio del Col Rosà, una tenera avventura

In montagna ho vissuto anche qualche esperienza particolare e che mi piace ricordare. Sto pensando a tre escursioni con animali domestici: un cane, un gatto e una capra seguirono me, familiari e amici rispettivamente sulla Scala del Minighèl in Tofana, lungo la ferrata e la normale del Col Rosà e nella traversata da Antruiles a Fodara Vedla per Forcella Camin. 

Mi sovviene nitidamente il ricordo del gatto in ferrata. Era la metà degli anni ’70 ed esordivamo nelle nostre scorribande montane quando, con mio fratello e due amici, salii la ferrata Bovero sul Col Rosà, che avevo già percorso con i miei genitori intorno al 1968.

Niente di eroico, certo, visto oggi; ma allora ero il "vecchio" del gruppo e avevo sedici anni! Partendo dal campeggio di Fiames, ci si materializzò subito davanti un micio, che prima ci annusò ben bene e poi, convinto, iniziò a trotterellare con noi lungo la strada bianca di Pian de ra Spines.

A Forcella Posporcora ce l’avevamo ancora tra i piedi, all'attacco della ferrata pure. Che fare? Carlo prese l'iniziativa e ficcò il felino nello zaino, lasciando fuori solo la testa; quello, per nulla intimidito, si lasciò accarezzare - anche da me, che non ho mai avuto un gran feeling con gli animali - e salì "in carrozza" con noi fino in vetta. 

Il Col Rosà, da Fiames (foto I.D.F.)
Presso la croce lo liberammo, ma non scappò: anzi, accettò qualcosa delle nostre merende e poi ci seguì zampettando sulle rocce, tra mughi e conifere e lungo i canali della normale, fino alla base del Col. 

Chiudendo la gita al campeggio, mosso dall’istinto, il micio cambiò strada e, così com'era apparso alcune ore prima, sparì. Non miagolò nulla; tra me e me, però, gli rivolsi un sommesso ringraziamento per la tenera, silenziosa, discreta compagnia che quel giorno ci aveva fatto.

12 ott 2020

Dove nasce il torrente Boite?

Il Boite, nato a nord della conca ampezzana, fluisce lungo l’intera valle alla quale dà il nome e, dopo circa 45 km, si getta nel Piave a Perarolo di Cadore. 
A ben vedere, il torrente non possiede una vera e propria sorgente. Nasce dalle acque che scendono dagli altipiani di Fòsses e Rudo e che, dopo essere filtrate sotto terra attraverso il blocco calcareo su cui poggiano gli altipiani stessi, riemergono a nord della radura di Cianpo de Crósc, oltre Ra Stua. Nel tratto iniziale – caratterizzato da tranquille e scenografiche volute meandriformi e da una rara flora di sorgente e di torbiera – il torrente porta però il nome di Aga de Cianpo de Crósc. 
L'Aga percorre la Val de Rudo fino al pascolo di Pian de Loa; sul margine destro orografico di questo si fonde con le acque del Ru de Fanes, nato sulla Munt de Gran Fanes e disceso per la valle omonima, dando vita a un lago e alle due famose cascate. 
Poco prima di Pian de Loa, il Ru de Fanes riceve quello de Travenànzes, nato presso Forcella Col dei Bos e sceso lungo il solco vallivo omonimo, tra la Tofana e le cime di Fanes. Da ultimo, l'Aga si fa carico di un terzo rio, il Felizon, che sgorga dalle vivaci sorgenti alla base delle Punte del Forame e corre fino a Fiames; solo allora, allo sbocco della forra sotto la rocca di Podestagno, il corso d'acqua può fregiarsi del nome di “Boite”. 
Nella cartografia, tra cui quella ufficiale dell'IGM, e nel patrimonio comune l'idrografia d’Ampezzo è un po' confusa, identificando come Boite anche le sorgenti e il corso dell'Aga de Cianpo de Crosc e fuorviando qualche visitatore del Parco Naturale che, giunto al rifugio Ra Stua in sandali, voleva guadagnare in pochi minuti il luogo natio del principale torrente ampezzano, decantato come "imperdibile". 
Ecco il Boite! (foto E.M., 12 ottobre 2014)
“Monti boschi e pascoli ampezzani nei nomi originali”, manuale di toponomastica di De Zanna e Berti, e ”Atlante del territorio silvo pastorale delle Regole e del Comune di Cortina d’Ampezzo” di Filippi (che denomina le sorgenti Aghes de Cianpo de Crosc) hanno riordinato un po' la questione. Nonostante i dubbi sollevati da qualcuno, ci siamo così convinti che si possa parlare di Boite vero e proprio solo a Pian de Loa, nei pressi dei due ponti alla base del canalone franoso che scende dal Col Rosà. Proprio lì, in condizioni meteorologiche autunnali e particolari, ci è occorso di riuscire a distinguere la fusione delle acque provenienti dalla destra e dalla sinistra idrografica, che quel giorno avevano due colori diversi.

26 set 2020

50 anni del Diedro Dallago sulla Cima Cason de Formin

Il crinale della Croda da Lago nel gruppo omonimo, articolato in aghi, punte e torri, anche se fu esplorato dai pionieri fin dal 1878, non offre dappertutto roccia solidissima. 
Una cima sembra comunque un po’ più solida delle altre. Scalata nel 1930 e da allora costellata di percorsi, l’ultimo dei quali mezza dozzina di anni fa, è la Cima Cason de Formin (m. 2376), che guarda con una parete giallastra il pascolo e il Cason omonimi, e si vede bene salendo dal Ponte di Rocurto al rifugio Croda da Lago. 
Non si sa se la cima, non semplice da raggiungere, avesse un nome già al tempo dei pionieri: dal punto di vista esplorativo, fu scoperta da quattro ampezzani, le guide Angelo Dibona e Luigi Apollonio e i fratelli Rinaldo e Olga Zardini, che il 17 luglio 1930 tracciarono la prima via sul lato ovest. 
Quarant’anni dopo, dunque mezzo secolo fa, la guida Franz Dallago con Dino Constantini battezzò invece il diedro che solca la parete sul versante affacciato alla Val Formin: un diedro grigio e verticale, lungo oltre duecento metri e ricco di clessidre naturali, che offre una salita classica, molto piacevole e coinvolgente. Nella prima lunghezza, il passaggio più difficile della via (V grado) si può furbescamente evitare attaccando per la via Dibona e salendo per rocce gradinate. 
Cima Cason de Formin,
dal sentiero 434 (C. Bortot)


Dallago e Constantini scalarono il diedro, da alcuni detto «del Naza», il 23 settembre 1970, usando un solo chiodo e inaugurando una via di indubbio successo. Nel luglio 1976 Diego Ghedina, Franco Alverà e Ivo Zardini vi tracciarono una breve variante: non conosciamo alcunché della prima ripetizione, prima solitaria e prima invernale, anche perché non risulta che la cima abbia mai avuto un libretto per le firme. 
Dopo cinquant’anni, i primi salitori – ultra settantenni in gamba - certamente ricordano la via scoperta sulla Cima Cason de Formin, che ha dato da impegnarsi e da divertirsi a più di una generazione di frequentatori delle Dolomiti. 
Se ci sarà sempre qualcuno che si trova a proprio agio su rocce non estreme, dove è prima di tutto la Montagna, e poi il gesto atletico, che conta, altri ancora troveranno certamente soddisfazione su quel diedro.

8 set 2020

Hans, storico gestore del "Fonda Savio" (1935-2020)

Il 27 agosto si è spento Hans Pörnbacher, storico gestore del rifugio Fonda Savio. 
Guida alpina e maestro di sci originario della Valle Aurina, uomo di montagna schietto e affabile, si è addormentato nella sua Campo Tures a due mesi dall'85° compleanno. 
Noto fra i suoi paesani come “Öler-Hons”, a metà degli anni '60 aveva rilevato dal precedente gestore, il rifugio al Passo dei Tocci sui Cadini di Misurina, aperto dalla Sezione XXX Ottobre del Cai di Trieste nel 1963 e intitolato ai fratelli Paolo, Piero e Sergio Fonda Savio, nipoti dello scrittore Italo Svevo, caduti durante la 2^ guerra mondiale. 
Con la moglie Lina e i figli Marianna e Florian, che poi gli è succeduto, Pörnbacher condusse il rifugio fino a qualche anno fa, ritirandosi quindi a vita privata nella casa di Campo Tures. 
Per ricordarlo, sconfino nel personale, ed estendo il mio ricordo anche ai familiari di Hans che ho conosciuto. Dopo aver visitato il rifugio già dalla prima gioventù per escursioni e ferrate, nel quindicennio 1981-96 salii per diciannove volte - con una serie di amici – la classica e piacevole via Mazzorana-del Torso sulla fessura sud della Torre Wundt, torrione dolomitico a poca distanza dal rifugio. 
Il rifugio Fonda Savio e la Cima Cadin
del R ifugio (foto B. Contin)
Ogni qual volta si giungeva su al Fonda Savio per arrampicare o solo per camminare, era un'abitudine passare alla capanna per gustare l’ottimo strudel di Lina e una buona birra, e non mancavano mai due battute con i gestori.
Ricordo che Hans, al quale avevo detto della mia parentela diretta con Lino Lacedelli, anche lui affezionato alla zona, vedendomi mi accoglieva, con il suo marcato accento tirolese, quasi sempre così: “Lazzedèli, come stai?” oppure “Sei venuto su per la tua Tore?” 
Ricordo con simpatia il valente rifugista e saluto la famiglia, che gli è stata vicina fino alla fine; pur non avendo da qualche anno l'occasione di raggiungere un rifugio che ho amato più di altri, rivedo ancora la figura di Hans, le sue parole e i suoi consigli.

1 set 2020

1° settembre, sullo Spigolo Dibona

Quanto può contare per qualcuno, lasciare il proprio nome su uno dei tanti libri di vetta che costellano i nostri monti? Molto, e lo dico con convinzione. Il fatto è questo: il 1° settembre di qualche anno fa, salimmo in tre lo “Spigolo Dibona” della Cima Grande di Lavaredo.

Una via famosa, che personalmente non ricordo troppo difficile; ritenuta un po' rischiosa per le scariche di sassi smosse da chi sale, riveste un grande rilievo storico, legandosi ad una figura importante per l'alpinismo, Angelo Dibona, e fu una piacevolissima esperienza.

Giunti sul cengione sotto la cima, il tempo stava cambiando velocemente, ma l’amico Renzo (che aveva già superato la cinquantina ed avrebbe potuto essere nostro padre) volle a tutti i costi salire in vetta, per vedere la croce e firmare il libro. 

L'amico Renzo (1933-2010, foto archivio R .A.)

Gli interessava il panorama che si gode da lassù; disse che forse sulla Grande non sarebbe mai più salito, e dunque avrebbe gradito lasciare il suo nome su una vetta, che spesso gli alpinisti saltano, giudicandola superflua. 

Fummo d'accordo: giunti alla croce firmammo il libro, facemmo merenda e, visto il cielo ormai nero, ci affrettammo a scendere. Lungo il ritorno - in cui incrociammo altre cordate - sopravvenne un furioso temporale, che ci bagnò fino alle ossa, trasformò la parete in un torrente, complicò le manovre di corda e tutto quello che ne consegue.

Giurammo che, se fossimo giunti a terra incolumi, avremmo festeggiato come si deve lo scampato pericolo: e così fu. Da Molin a Misurina facemmo incetta di tè, tè con rum, vino e infine grappa, tanto che la discesa verso casa... divenne molto più alpinistica della salita.

L’amico se n'è andato dieci anni fa. Quando ci incontravamo, seppure a distanza di tempo, i nostri discorsi vertevano quasi sempre sull'unica ascensione fatta insieme, sulla cima che lui non rivide più, sul furioso temporale, sulla storica "balla" che ci portammo a casa.

Per noi giovani, ma soprattutto per lui, quella domenica sullo Spigolo Dibona penso abbia costituito senza dubbio un ricordo incancellabile.

16 ago 2020

Laura Constantini, anima del rifugio Biella

Il 12 agosto è scomparsa Laura Constantini «Ghèa», anima da quasi sei lustri con i familiari del rifugio Biella, che sorge a quota 2327 m. sull’Alpe di Fosses (Gruppo della Croda Rossa), all'estremo limite della conca ampezzana e verso le valli Pusteria e Badia.
Laura, grande lavoratrice, con il consorte Guido Salton - valente artigiano, giunto a Cortina da Cison di Valmarino nei primi anni '70 e divenuto prima guida alpina e poi rifugista – dal 1992 ha gestito con solerzia e competenza la capanna ai piedi della Croda del Béco, sorta nel 1907 per volontà della Sektion Eger del Club Alpino Tedesco-Austriaco. Il rifugio, sopravvissuto a due guerre, si presenta ancora oggi quasi intatto nelle forme antiche: un massiccio edificio in pietra, autentico ricovero alpino ben inserito nell’accidentato e lunare altopiano di Fosses.
Il rifugio Biella, dalla Croda del Bèco (foto E.M.)
Succeduti alla famiglia Hans Brunner di Villabassa nella gestione del rifugio, che si raggiunge a piedi con lunghe camminate da Cortina, Braies o S. Vigilio di Marebbe, Laura e la famiglia hanno saputo valorizzare al meglio il Biella, di proprietà demaniale ma affidato dal 1947 al Cai Treviso, rinnovandolo, fornendolo degli agi opportuni e custodendolo con passione ed amore per la montagna.
Nel cuore di un'estate già difficile, Laura Constantini è «scesa a valle». Della sua dinamica presenza, della sua cucina e dei dolci che molti ricordano, resterà di certo una traccia indelebile lassù, ai piedi della Croda del Béco, dove ha passato un trentennio ospitando migliaia di alpinisti e di escursionisti, sempre con un sorriso.

10 ago 2020

101 anni dello spigolo più lungo d'Ampezzo

Un secolo fa, anche a Cortina d'Ampezzo gli appassionati di montagna avevano altro da pensare, che non “andare in croda”.

C'erano baracche, trincee, camminamenti da sistemare, salme da recuperare, e aggirandosi fra le montagne era normale imbattersi in gallerie franate, ordigni inesplosi, reticolati rugginosi e chissà che altro.

Più che gli scalatori, in quegli anni fra le crode si aggiravano i "recuperanti", alla ricerca di legno, piombo, rame ed altri materiali per arrotondare le misere condizioni di anni disgraziati. Eppure c'era anche chi, più fortunato, ricominciava a mettere le mani sulla dolomia. 

La Punta Nera col suo spigolo, dal vecchio confine

Il giovane fotografo Fritz Terschak,che dal 1910 scalava su buone difficoltà ed era segretario della Sektion Ampezzo dell'Alpenverein, e Isidoro Siorpaes, un valligiano che aveva dimostrato buone doti di arrampicatore, il 10 agosto 1919 decisero di tentare insieme l'interminabile spigolo sud della Punta Nera del Sorapis, che scende per oltre un chilometro con quinte rocciose, mughi e detriti dai 2847 m. della cima fino al piede della parete, raggiungibile per ghiaioni dal confine appena dismesso fra il Tirolo e l'Italia. 

La salita richiese sette ore di fatica, su difficoltà medie: non passò di certo alla storia come un'impresa memorabile, ma fu il primo tentativo di riprendere la familiarità con le montagne, dopo un lustro in cui le Dolomiti avevano visto solo assalti all'arma bianca, cannonate, bombe, morti, feriti e distruzione. 

In un certo senso, il 10 agosto di 101 anni fa Fritz e "Doro Pear" fecero la pace con le crode ampezzane martoriate dall'immane sciagura.

25 lug 2020

Scalando il Campanile

Poiché le scale lignee che salgono all'interno della torre campanaria di Cortina non rispettano le attuali norme di sicurezza, sul ballatoio del nostro campanile, inaugurato il 24.12.1858 e che raggiunge l'altezza di 70,17 m., escluse la croce e la sfera dorata sommitale, non è possibile salire.
Turisticamente forse è un peccato, poiché secondo qualcuno il campanile ampezzano poteva essere una proposta d'interesse panoramico e storico. 
Il panorama dall'alto, infatti, è suggestivo, ed è spiegato da 47 targhette metalliche fissate lungo la balaustra, che indicano i nomi delle montagne visibili, nella conca e oltre. 
Chi ha potuto visitare il campanile quando era permesso, seppure non di frequente, ricorderà certamente le visite: chi scrive non dimentica il giorno d'inverno in cui con alcuni ragazzi, sfruttando la coltre bianca posatasi sulla balaustra, si divertì a lanciare palle di neve da settanta metri d'altezza, centrando anche l'ombrello di un malcapitato passante... 
Un tempo, in occasione di ricorrenze particolari, qualche temerario scalava il campanile, per farvi sventolare bandiere e stendardi. Già intorno al 1882 l'alpinista tedesco Emil Zsigmondy aveva sfidato la forza di gravità percorrendo in piedi tutta la balaustra. Nel 1925 e 1927, in occasione della visita del Principe ereditario Umberto di Savoia, la guida Enrico Gaspari Becheréto salì sulla croce a fissare la bandiera del Regno.
Il campanile in un inverno nevoso
(foto I.D.F.)
A metà '900, poi, gli Scoiattoli Armando Apollonio Bocia e Luigi Ghedina Bibi risalirono per collocare stendardi: si ricorda anche la salita del 1954, per festeggiare il ritorno dal K2 di Lino Lacedelli. Nella primavera 1945, anche la guida Marino Bianchi aveva raggiunto la croce in occasione della liberazione dell'Italia dal nazifascismo, collocandovi una bandiera.
Non tutte le scalate del campanile sono state fortunate: il 26 aprile di dieci anni fa, infatti, Marco Da Pozzo, guida che con il collega Luca Dapoz stava lavorando sul ripido culmine, scivolò sulla lamiera; cercando senza successo di afferrare l'asta del parafulmine, Da Pozzo sbatté con violenza sul tetto decedendo sul colpo.
L'episodio suscitò molta commozione e preoccupazione, allontanando per chissà quanto tempo la prospettiva di ulteriori scalate del campanile.

16 lug 2020

Nuova falesia d’arrampicata sotto l'Averau

Nelle Dolomiti d'Ampezzo è nata una nuova falesia per l’arrampicata, alla base della parete S dell'Averau, cima frequentata per una piacevole via ferrata e diverse vie alpinistiche, tra cui quella sulla parete SO scalata nel 1945 dagli Scoiattoli A. Alverà, U. Pompanin, U. Illing e A. Apollonio. 
La palestra, attrezzata nel maggio scorso dalle guide alpine Maurizio Venzo, Valerio Scarpa e Giorgio Peretti, si trova tra Cortina e Colle Santa Lucia, lungo il sentiero Cai 441 che collega Forcella Nuvolau al Passo Falzarego. 
Lungo la fascia che sovrasta il sentiero, le guide hanno individuato 15 vie, su una favolosa dolomia scura. Le vie, attrezzate con spit inox e catene con moschettoni, si sviluppano per 15-18 m. ognuna e presentano difficoltà dal 4c al 6a+. I loro nomi, in parte riportati agli attacchi, sono stati presi da espressioni tipiche veneziane: «testa da batipai», «el gato de piombo», «el petacòche». 
La parete si trova a 2400 m. circa e il sole vi arriva intorno a mezzogiorno, per cui ai frequentatori – che ovviamente godranno di un arco stagionale limitato - le guide raccomandano vestiario adeguato, oltre a casco, corda da 50 m. e dieci rinvii.
La nuova palestra dedicata a Renato De Pol
 (foto G, Peretti)

La palestra porta il nome di Renato De Pol (1927-1973), salito per lavoro da Venezia a Cortina, dove visse e fu amico e compagno di cordata di molti Scoiattoli e guide locali, tra cui anche Giorgio Peretti. 
Protagonista di alcune prime salite sulle cime della conca, «Renè» cadde l'1 maggio 1973 dallo spigolo Jori della Punta Fiames, che stava salendo con Lino Lacedelli e Marisa Zangiacomi. Una targa in bronzo realizzata dalla Fonderia Michielli lo ricorda ai piedi della parete. 
La falesia si raggiunge in due modi. Si può partire dal rifugio Fedare (sulla SP 638, a 2,8 km dal Passo Giau) e salire in seggiovia al rifugio Averau; oppure da Bain de Dones (sulla strada del Falzarego, a 14 km da Cortina) si sale in seggiovia al rifugio Scoiattoli e poi all'Averau. Dal rifugio, seguendo il sentiero Cai 441, si giunge alla palestra in dieci minuti.

10 lug 2020

Corno d'Angolo, breve ma intenso

Se ne è scritto già molto: del resto, le esperienze coinvolgenti non si scordano facilmente, e tornano spesso alla memoria.
Riproponiamo quindi la gita sul Corno d’Angolo, ricordando che nell'estate 2008 il Cai Cortina decise di far conoscere la cima anche ai propri soci, e la propose con successo a una ventina di amici, giunti anche da fuori provincia.
Il Corno si riconosce da lontano per la sagoma slanciata, che spicca originale dalla strada fra il Passo Tre Croci e Misurina. Mentre però lo spalto esterno, che cade verticale per 200 metri su uno zoccolo detritico, nel 1933 offrì a Comici e Del Torso lo spunto per un itinerario arduo e poco ripetuto, verso l’interno il Corno si eleva di poco da una solitaria conca di massi e ghiaie che s’insinua fin sotto l’adiacente Croda di Pousa Marza.
Proprio da quel versante si svela, con passi pressoché elementari, la via più semplice per raggiungere la cima.
Dall'insellatura su cui campeggiano gli ultimi resti del rifugio Popena, ci si porta su una cresta fra le cime. La si asseconda piegando verso sinistra su ghiaie e rocce e, con difficoltà contenute ma sempre con un po' di attenzione, ci si spinge sugli esposti blocchi della vetta, dove da un paio di stagioni un nuovo libretto accoglie firme e pensieri di chi sale.
Il Corno d'Angolo (foto C.B.)
Considerata la brevità e la relativa facilità d’accesso, non si sa chi sia giunto sul Corno per la prima volta, e quando; è probabile che fosse noto ai cacciatori cadorini e pusteresi anche prima del fondamentale studio sull'area tra Cristallo e Popena, edito da Wenzel Eckerth a Praga nel 1891.
A chi visita il Corno, sapere chi lo salì per primo non cambia la vita; basta uscire dalle tracce battute e toccare un'elevazione di impegno contenuto, silenziosa e fortunatamente poco usurata, sulla quale oggi ci accoglie soltanto un bastone infisso fra due blocchi.
Al cospetto di tanta grandezza, riesce più facile pensare, rievocare ricordi, ideare nuovi progetti.

23 giu 2020

Nuovo libretto di vetta sulla Pala Perosego

Fatti i conti, se l’è cavata benino il libro di vetta della Pala Perosego, sulla dorsale del Pomagagnon: considerata la collocazione sulla cima alla mercé delle intemperie, ha comunque resistito per 13 stagioni.
Il libretto, posato il 20.5.2007 da chi scrive sulla lama terminale della Pala, un mese fa è stato prelevato «bagnato, inzuppato e inservibile» per essere sostituito con uno nuovo da Roberto e Clara, che lo hanno sistemato per riporlo nella raccolta della Sezione del Cai di Cortina. 
Prima però, lo ha visionato il sottoscritto. Constatato che purtroppo il documento in parte non si legge più, sono emerse le tracce di circa 40 passaggi, di persone note e sconosciute, viventi e scomparse (una di esse è l'amico udinese Luca Beltrame, salito nel 2010 e caduto sulle Alpi Giulie il 25.4.2013); sono passati tedeschi, ungheresi e veneti, tra cui due alpinisti di 86 e 72 anni; si sono visti alcuni amici di Cortina, saliti anche più volte.
E forse non sono tutti, poiché risultano anche altre visite nel periodo in questione; magari qualcuno, sotto l'ometto, non avrà neppure trovato il libretto, che il vento aveva sbalzato su una cengia sotto la cima. 
Il libretto di vetta della Pala Perosego,
2007-2020
Tutto questo rappresenta un frammento di storia che, se conta poco nel complesso dei problemi del mondo, serve perlomeno a quantificare le presenze in un angolo minore e disertato, non alla moda e consegnato ad un inevitabile oblio, ma anch’esso ricco di qualcosa da dire. 
Sulla Pala ci sono ancora varie tracce di soldati in guerra; lungo il versante rivolto a Cortina salgono quattro vie, due delle quali molto dure; il pubblico sulla cima è scarso, ma chi sale dimostra di riconoscere il valore del contesto, del panorama e della solitudine della zona. 
Da quest'anno la Pala Perosego ha così il terzo libretto di vetta della sua storia escursionistica, documentata dal 2000. D’ora in avanti, esso potrà vivacizzarsi coi nomi e i pensieri di apprezzamento di coloro che, sfuggendo al consueto e usurato carosello dolomitico, lassù possono senz'altro cercare qualcosa di diverso.

17 giu 2020

Il “piccolo” Monte Popena o Popena Basso

Nel gruppo del Cristallo, cuore delle crode ampezzane, l'oronimo ladino Popena - nato dall'unione di "pó-", "dietro", e "péna", "pendio roccioso coperto da magra vegetazione" - distingue 12 luoghi diversi tra Cortina e Auronzo. 
Iniziamo a contarli. Ci sono due valli, la Popena Alta e la Popena Bassa, percorsa dalla strada Misurina-Carbonin; c'è poi una cima severa e tra le meno battute della zona, il Piz Popena; abbiamo un Passo, oggi invalicabile per le frane da cui è tormentato, che separa l'impluvio detritico verso il Rudavoi dalla Val Popena Alta.
Proseguendo, c'è la sella di magro pascolo, occupata dai resti di una casetta, che in stagioni ormai lontane fu ospitale rifugio per alpinisti e sciatori impegnati lassù. Abbiamo due torri, una delle quali salita dalla guida pusterese Michele Innerkofler il 29.7.1884, poche ore dopo aver scalato con la cliente Mitzl Eckerth la vicina e inaccessa Croda di Pousa Marza; tre torrioni, su uno dei quali già nel 1908 il giovane Angelo Dibona affrontò da solo le più alte difficoltà del tempo; al penultimo posto si piazza la grossa torre visibile da Misurina che nel 1893, dopo la salita di un colonnello e fotografo germanico con due guide, da Popena Pìciol cambiò il nome in Torre Wundt. C'è infine un monte dalle forme bonarie, bazzicato già in tempi remoti da pastori e cacciatori. 
Quest'ultimo è noto anche perché nell'agosto 1926 lo studente vicentino Severino Casara lo battezzò come comoda "palestra di roccia" di Misurina, che ebbe negli anni un grande successo; oggi sulle sue pareti ci sono molte vie di varia difficoltà, che portano i nomi di Mazzorana, dei lecchesi del gruppo di Cassin, del triestino Zanutti, degli Scoiattoli di Cortina Alverà, Apollonio, Lacedelli e Lorenzi, di Alziro e Nicola Molin, di Cipriani. 
Il monte è una cupola di 2225 m., coperta da campi di mughi in cui si avventurano i camosci, sul lato che scoscende verso la Val Popena Alta, e strapiombante invece verso Misurina con una larga parete di dolomie colorate.
Ad accrescere la confusione toponomastica, il monte ha due nomi: qualcuno lo chiama Monte Popena, altri Popena Basso, altri ancora lo scambiano persino col fratello maggiore, il Piz Popena, che gli sta alle spalle, è alto 3152 m. e ha un aspetto molto diverso. 
Il Monte Popena o Popena Basso,
dal lago di Misurina (foto I.D.F.)
Il “piccolo” Monte Popena / Popena Basso, oltre che teatro di belle salite - fra le quali due classiche, aperte dalla guida Mazzorana negli anni '30 - è il traguardo di un'escursione che prende avvio dal lago di Misurina e consente una fuga originale nella natura, molto proficua se compiuta con le atmosfere dell'autunno. Il Monte per la via più logica, un'ex mulattiera militare abbastanza ben conservata e su cui si procede in modo facile e intuitivo, è godibile soprattutto quando più in alto non si sale. Ci si muove in un bosco antico e silenzioso, si passa ai piedi di una guglia dedicata a una ragazza caduta lassù nel 1944, si rimonta un piccolo "mare" di mughi e si esce su un morbido prato, dal quale si dominano le valli, le cime, le torri, le guglie cui si accennava all'inizio. 
Da giovani, per noi Popena Basso significava "vie Mazzorana"; giunti al limite della parete, senza degnare la cima di uno sguardo si arrotolava la corda e ci si avviava veloci a valle, presi dalla fame e dalla sete.
L'ultima volta in cui siamo giunti lassù, in una nebbiosa giornata di settembre, non avevamo più corde e salimmo con calma sul culmine, dove un grande ometto di sassi resiste al tempo e alle bufere. Ci accolse la solitudine di una vetta che gli scalatori non visitano e i camminatori conoscono poco.
Superfluo constatare che, tra la nebbia rischiarata da un pallido sole, sul Popena quel giorno eravamo soltanto in due.

13 giu 2020

Sul Becco di Mezzodì, tra storia e memoria

Del Becco di Mezzodì, una cima di piccole dimensioni ma rilevante per la storia dell’alpinismo, che caratterizza il panorama sulla destra orografica della valle d'Ampezzo, mi piace scrivere.
Per vari motivi: ogni giorno lo scorgo dalle finestre di casa; fu la prima cima dolomitica che scalai, a poco più di sedici anni e con quattro amici inesperti e temerari come me; dopo diverse altre salite, è stata l’ultima ascensione in cordata, a trent’anni dalla prima; più volte ho consultato con piacere il libro posato in vetta dalla Sektion Reichenberg del Club Alpino Tedesco-Austriaco nel 1901 e rimasto lassù sino al 1917 a testimoniare nomi e pensieri curiosi ed interessanti. 
M'incuriosisce anche il nome con cui i nostri antenati indicavano il Becco, e del quale non so il perché: «ra Ziéta», la civetta, forse legato all’omonimo rapace? Al riguardo, nel vocabolario ampezzano, novant'anni fa il medico Angelo Majoni riportava un bel detto  meteorologico: «Canche ra Zieta bete su ra bareta, in poco tenpo ra peta», cioè «Quando il Becco si copre di nuvole, in breve tempo grandinerà». 
Il Becco di Mezzodì da sud, dal Monte Fertazza
(foto E .M.)
Credo che chi mastica un po’ di storia dei nostri monti, sappia che i primi due uomini a mettere piede sul Becco, il 5 luglio 1872, furono la guida Santo Siorpaes Salvadór con il cliente scozzese William Edward Utterson Kelso; il fatto, che segnò l’avvio della conoscenza delle cime che circondano il Lago di Fedèra, è ricordato dal 30 luglio 1972 con una targa all'ingresso del rifugio Croda da Lago. 
Una chicca storica legata al Becco, che ho scoperto da poco, è questa. Per trentasei anni, cioè fino al 19 agosto 1908, quando le guide Bortolo Barbaria Zuchìn e Giuseppe Menardi Berto salirono con i clienti veneti Francesco Berti e Ludovico Miari il camino nord-ovest che fronteggia il rifugio sul versante ampezzano, detto «Camino Barbaria», la scalata del Becco da Cortina - che allora faceva parte dell'Impero austro-ungarico - si poteva fare soltanto espatriando, cioè valicando, anche se per un breve tratto, il confine con il Regno d’Italia posto presso la Forcella Ambrizzola. 
La via normale che ancora si percorre, infatti, si svolge tutta sul lato sud-ovest, che ricade nel territorio di San Vito di Cadore.

6 giu 2020

Prima di salire il Piz dles Cunturines

I frequentatori di questo blog (che crede di non essere soltanto un "suggeritore" di proposte per gite o salite più o meno conosciute e pubblicizzate, ma anche la fonte di curiosità linguistiche, storiche, toponomastiche legate alla montagna) avranno quasi certamente «inventato» nella loro vita frasi, modi di dire, parole singolari, poi ricordate e usate in contesti amicali, familiari, sportivi. 
Per chi scrive, una di queste espressioni, dialettale e lapidaria, fu senza dubbio «ma agnó m aeo menà a dromì, inze un parù?» (in italiano: «ma dove mi avete portato a dormire, in una palude?»).
L’espressione ha una data e un luogo di nascita ben precisi e definiti: permane invece qualche incertezza nel ricordo di tutti gli amici che ne furono testimoni. 
Ricordo di averla coniata il 2 settembre 1979, dopo aver pernottato con parte della compagnia di allora nella casermetta che si trova a 2170 m. presso il Passo e il Lago di Limo, sull'altopiano di Fanes. Il menù del giorno seguente era il Piz dles Cunturines (3064 m.), uno dei colossi dolomitici di minor impegno alpinistico e molto panoramico, che sorge in alta Val Badia e fu conquistato nel 1880 da Santo Siorpaes di Cortina con Albrecht Grünwald. La salita riuscì poi ottimamente, con grande soddisfazione di tutti.
La circostanza fu la seguente: durante la notte tra l'1 e il 2 settembre, nello stanzone in muratura della caserma (allora in buono stato, ma impossibile da riscaldare) dove eravamo arrivati salendo per la Val di Fanes, si era formata una condensa tale che, all’uscita mattutina dal sacco a pelo, chi scrive fu obbligato a calzare gli scarponi del tutto fradici per l'umidità, avendoli incautamente lasciati nella stanza senza preoccuparsi di coprirli. 
La Caserma Mario Feruglio
presso il Lago di Limo (foto R. Vecellio)
Non so se qualcuno dei presenti ricorderà le parole con cui sbottai, seccato ma anche divertito, prima di lasciare la fredda caserma, intitolata al Capitano Mario Feruglio del 7° Reggimento Alpini, Medaglia d’Oro al valor militare nel dicembre 1917.
Io non le ho dimenticate, e mi sono tornate in mente tempo fa, mentre raccoglievo espressioni, modi di dire e parole ampezzane da destinare a un libro di prossima uscita. 
Ovviamente non ho ripescato solo la frase, legata a un contesto irripetibile: ad essa ho collegato due giorni di gioventù spensierata, un'esperienza dell’alpinismo dei nostri vent’anni, la compagnia scanzonata e altri dettagli, che lascio nel cassetto dei ricordi.

Sachsendank 1883 Nuvolau 2023. 140 anni di storia e memoria

Ernesto Majoni e Roberto Vecellio, Sachsendank 1883 Nuvolau 2023. 140 anni di storia e memoria , pp. 96 con foto b/n e a colori, Cai Cortina...