Sono trascorsi quasi trentacinque anni da quel 14 agosto del '77, giorno in cui, elettrizzati dall'idea offertaci dall’alpinista Severino Casara, salimmo la via Casara-Baldi-Rosenberg lungo il camino N della Torre Toblin, alle spalle del Rifugio Locatelli-Innerkofler alle Tre Cime di Lavaredo.
Avevamo trentasei anni in due; alla fine di quello stesso mese una guida di Cortina ci avrebbe regalato la via Miriam alla Torre Grande d’Averau (che per ambedue fu il “battesimo del fuoco”), e la Torre Toblin ci sembrò un bell’allenamento.
Ripensandoci, mi chiedo però che cosa pensavamo di trovare in quella “cloaca di corvi”, come la definì Goedeke nel suo bel libro sulle Dolomiti di Sesto del 1983.
Io ricordo un cunicolo stretto e buio, di roccia friabile e umida, dove lo zaino passava a stento e il gusto della salita fu in gran parte sopraffatto dal tormento di uscire senza danni da quel putridume.
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Forse la cordata di giovani vicentini che l’aveva salito più di mezzo secolo prima, l’avrà giudicato attraente: il fatto è che a noi piacque assai di più la discesa, tutta a corda doppia su chiodoni residuati dalla guerra, nei camini dove due estati dopo sarebbe stata inaugurata la via ferrata che - sfruttando le memorie della 1^ guerra mondiale - ha reso nota la Torre.
Ho ancora negli occhi le fotografie che ci scattammo e mandammo a Vicenza a Casara: in una mi rivedo carico di ferri su una vetta marginale, come fossi reduce da chissà quale impresa.
Oggi, in tempi che rifiutano quel genere di salite, non proporrei ad alcuno di ricalcare le nostre orme: la ferratina sul lato opposto della Torre è molto più luminosa, sicura e panoramica.
Se qualcuno però salisse il Camino Casara, mi piacerebbe sapere se sia ancora al suo posto il primo dei due-tre chiodi che piantai nella mia carriera, per sostare in equilibrio lungo quel tunnel ghiaioso senza luce né grandi qualità!
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