Quasi cento anni
fa, anche nella valle d'Ampezzo i professionisti e gli appassionati della montagna avevano altro da pensare che andare "in croda”.
C'erano centinaia di
baracche, trincee, camminamenti, salme da recuperare, e aggirandosi
fra le cime era inevitabile imbattersi in gallerie franate, ordigni
inesplosi, reticolati rugginosi ed altro.
Più che gli
scalatori, in quegli anni sui monti si aggiravano i recuperanti, inventatisi un mestiere alla ricerca di legno, ferro, piombo, rame, stagno per
arrotondare le poco liete condizioni di quegli anni disgraziati.
Eppure c'erano anche alcuni, più fortunati, che ricominciavano a mettere le mani sulla
dolomia. Il ventinovenne Federico Terschak, che già dal 1910 scalava su
buone difficoltà ed era stato segretario della Sezione Ampezzo
dell'Alpenverein, e Isidoro Siorpaes, un valligiano di qualche anno più anziano e con buone doti di alpinista, il 10 agosto del '19 si unirono per tentare l'interminabile cresta S della Punta Nera, che scende per oltre mille metri di roccia, mughi e detriti dai 2847 m della vetta fino alla base della parete, alta sui ghiaioni sopra
Dogana, sull'ex confine fra il Tirolo e l'Italia.
La cresta S della Punta Nera, dal Pònte del Vénco (maggio 2009) |
Per aggiudicarsi la cresta, ci vollero sette ore: la via Terschak-Siorpaes non passò alla storia come un'impresa
memorabile, ma fu il primo tentativo di riprendere la familiarità
con le crode, dopo un lustro in cui le Dolomiti avevano visto
solo assalti all'arma bianca, cannonate, spari, morti, feriti,
distruzione.
In un certo senso, "Fritz" e "Doro Pear" fecero la pace con le
crode ampezzane martoriate da una grande sciagura, dalla quale 140 compaesani non avevano fatto ritorno.
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