28 lug 2016

Forcella Alta, aspro angolo delle Dolomiti più note

Ad occidente della dorsale del Pomagagnon e a nord delle Pales de ra Pezories, un'insellatura consente (o consentiva?) di passare - in modo comunque alpinistico più che semplicemente escursionistico - da Fiames alla Val Granda, quindi dal versante al sole a quello all'ombra della dorsale citata. 
L'insellatura è denominata soltanto Forcella Alta (Forzèla Outa); probabilmente si tratta di un oronimo non molto antico, la cui origine è legata all'alpinismo, o forse meglio alla guerra. 
Quotata 1958 m, Forcella Alta si staglia evidente, ad esempio, dalla pista dell'ex aeroporto di Fiames ed è intagliata fra le cime delle Pezories, appendice del Pomagagnon che conta sei sommità definite, per fortuna disertate dal grande turismo. 
Pezovico, Q. 2014 e,in alto a destra Forcella Alta
(I.D.F., dal Pian de ra Spines, 14/10/2011)
In "Monti boschi e pascoli ampezzani nei nomi originali" (1983), Illuminato de Zanna e Camillo Berti - che le Pezories le conosceva bene e vi dedicò nel 1981 un saggio sul semestrale "Le Alpi Venete" - riportano che durante la Prima Guerra Mondiale l'insellatura ebbe una certa importanza strategica, come posizione avanzata e osservatorio italiano. 
Del suo valore rimane ancora qualche traccia: una trincea, una caverna e i resti del sentiero d'accesso che saliva dal fondovalle, diramandosi da quello che oggi porta all'attacco della via ferrata "Strobel" sulla Punta Fiames. 
Forcella Alta è un aspro angolo delle Dolomiti più note, conosciuto da pochi e frequentato da pochissimi. Di essa conservo il ricordo di tre visite, in due delle quali vi scesi dal Pezovico, risalto arrotondato all'estremità nord della cresta delle Pezories che non tocca neppure quota 2000 e guarda Fiames con due elevazioni, una delle quali ancora innominata. 
Dopo la frana che ha sconvolto il canalone sotto le pareti, scivolando fino alla SS 51 d'Alemagna presso il bivio per Pian de Loa, non mi è noto se sia ancora possibile (com'era almeno fino al 1996) salire sulla forcella per il sentiero militare che s'insinuava fra le rocce, in ambiente assai suggestivo, e poi scendere in Val Granda per la traccia agevolata da qualche attrezzatura che il Regio Esercito ha lasciato ai posteri. 
Per saperlo, attendo volentieri conferme da eventuali battitori della zona che, pur visibile dalla sottostante Statale, si cela alla massa dietro una selvatichezza quasi estrema.

25 lug 2016

Sull'"urlo pietrificato di un dannato", ovvero sul "campanile più bello del mondo"

Grazie ad Enrico, nella mia piccola storia è entrato anche l'"urlo pietrificato di un dannato", ovvero il “campanile più bello del mondo”: quello di Val Montanaia. 
Era il 10 settembre di trentacinque anni fa: eravamo partiti direttamente da Trieste, dove studiavamo, con pane, prosciutto e una bottiglia d'aranciata, e verso sera fermammo la 127 bordeaux al termine della strada, al tempo sterrata e sconnessa, della Val Cimoliana. 
Il portafoglio non ci permetteva di spendere e così ci accontentammo di fare un salto al vicino Rifugio Pordenone, per una birra propiziatoria. Il rifugio era semivuoto: in un angolo, in silenzio, cenavano due signori che si qualificarono come Altamura di Milano e Gilić di Fiume, noti esploratori dei monti dell’Oltrepiave che, tre giorni prima, avevano concluso un'altra via nuova sulla incombente Croda Cimoliana. 
Sul Campanile senza campana 
(foto E.L.)
Dormimmo in macchina, poco e malamente, perché infastiditi per gran parte della notte da decine di rane e rospi che gracidavano in una pozza vicina: così, semidistrutti, alle cinque del mattino eravamo già in cammino sull’erta che sale al Campanile. 
Superammo la via Glanvell-Saar regolarmente; un tiro a testa, senza noie, a parte quella della mia storica giacca a vento "Ghizzo", che alla seconda sosta mi sfuggì di mano e s'impigliò sulle rocce un bel pezzo sopra l'attacco. Al ritorno fu giocoforza risalire quel pezzo in libera, per riprenderla... 
Non dimentico i tre punti topici del Campanile: la traversata (che Berti, nella sua guida delle Dolomiti d'Oltrepiave, dipingeva con toni quasi apocalittici) più impressionante che difficile; la fessura, faticosa perché già lisciata - allora - da 80 anni di passaggi; lo scomodo camino, in cui tirai faticosamente lo zaino dietro di me. 
Sotto un sasso in vetta, trovammo con sorpresa un sacchetto del pane con la firma di Mauro Corona, salito qualche giorno prima, mi pare per l’82^ volta; non c'era invece la campana issata da 19 alpinisti veneti nel 1926, che ogni “audace” giunto lassù deve far risuonare per tradizione. Sapemmo dopo che, proprio quell’estate, era stata portata a Pordenone, per essere riparata! 
La discesa Piaz lungo la parete nord fu una delizia: giunti a valle, saltammo la tappa al rifugio, cosicché nel tardo pomeriggio eravamo già a Cortina, pronti a incuriosire la compagnia con la relazione della salita a una delle cime più ardite, famose e sognate delle Dolomiti.

18 lug 2016

Sul Bèco d'Aiàl

Slanciata piramide di dolomia scura e compatta, guarda Cortina con una parete alta duecento metri, scalata per la prima volta dagli Scoiattoli Albino "Strobel" e Arturo "Tamps" nel luglio 1962; è circondata da alcune guglie davvero bizzarre e spunta dal bosco sul lato destro orografico della Val Costeàna, a nord della Monte, il pascolo, di Formìn. 
Dalla sommità del Bèco, una delle cime più basse d'Ampezzo poiché raggiunge "soltanto" i 1845 m d'altezza, il panorama su Cortina si apre quasi a 360 gradi. Lassù, in vista della Grande Guerra, l'Esercito Italiano fece erigere una batteria antiaerea, attrezzando anche un sentierino che è quello usato anche oggi. 
Dell'apprestamento rimangono alcune fotografie, i grossi muri di riparo e, a pochi metri dalla cima, una capace galleria, che con ogni probabilità servì come deposito di munizioni e alloggio per i soldati. 
Il Bèco d'Aiàl in guerra
(raccolta E.M.)
Chi frequenta le crode ampezzane e ne apprezza la mia divulgazione ormai pluriennale, avrà capito che mi riferisco a uno dei tanti luoghi che hanno colpito la mia immaginazione e al quale ,mi sono affezionato: il Bèco d'Aiàl. Lo salii per la prima volta nel settembre del 1983 e in seguito vi sono tornato in molte occasioni, anche da solo. Nella più recente, in un caldo giovedì di fine luglio, volevo condividere la vetta con un'amica, che però non si sentì di raggiungerla. 
Sul punto sommitale del Bèco, a parte nelle notti della vigilia di Ferragosto 1986 e 1987, in cui - sotto la regia dell'amico "Lux", troppo presto scomparso - accendemmo il tradizionale (dubito molto ecologico ...) "fó de ra Madòna", non ho mai condiviso lo spazio con altri gitanti. 
Il colpo d'occhio che si apre dalla punta di quel dente, al di là della conoscenza del luogo e dell'interesse che può risvegliare nei curiosi, infatti, non è esattamente per tutti. 
Il breve accesso alla cima, il quale si distacca dal sentiero Cai 431 che dal Lago d'Aiàl porta a quello di Fedèra, fu sistemato una decina d'anni fa da alcuni soci del Cai, dopo la disgrazia che coinvolse una turista. Il sentierino è rimasto comunque delicato, dovendo il salitore superare obbligatoriamente, in salita e in discesa, una cengia di una quindicina di metri, stretta, un po' esposta e piena di ghiaino. 
Di recente, su proposta dell'attuale Marigo della Regola di Ambrizola, si è ventilata l'idea di un'eventuale rimessa in sicurezza dell'accesso, da far eseguire, nel caso, al Cai o alle guide alpine. 
Non sono proprio contrario all'idea, ma vorrei che la "rimessa in sicurezza" non significasse l'ennesima (in questo caso molto breve) via attrezzata con chiodi, corde, ponti o scalette, e magari dedicata a un alpinista non locale perché finanziata con denari esterni! 
La delicata cengetta del Bèco, unicvo elemento che difende la vetta dall'assalto di massa, non mi ha mai dissuaso dallo scegliere come obiettivo di una gradevole gita di mezza giornata (e nel 1996 vi portai anche i miei genitori, che non la conoscevano), una vetta minore e di cui pochi libri parlano, ma non per ciò meno suggestiva

15 lug 2016

Divagazioni sulla Croda Rotta, cima non "facile" né "erbosa"

La Croda Rotta è lo sperone con il quale la diramazione ovest della Punta Nera cade sulla testata dell'invaso detritico che scende verso le Crepedèles, percorso in destra orografica dal sentiero di accesso alla stessa Punta Nera. 
Quotata 2670 m, non ha grandi pregi estetici né alpinistici, e non ha una sua storia, poiché è ignoto quando e da chi sia stata salita per la prima volta. 
Fu liquidata sbrigativamente nella celebre guida delle "Dolomiti Orientali" come raggiungibile con “facile salita per terreno in gran parte erboso”, ma in base a diverse testimonianze scritte e orali, posso riferire che, per salirla, ci si trova invece davanti a una placca piuttosto inclinata e scivolosa a causa del ghiaino e la salita, per quanto breve, si attesta su difficoltà di secondo grado e forse più. 
La Croda Rotta, dai pressi di Forcella Faloria
(foto E.M., luglio 2012)
Assodato che, neppure oggi che in Dolomiti terreno vergine da esplorare ce n'è sempre meno, si troveranno tante persone smaniose di scalare la Croda Rotta, anche riguardo a essa la relazione inserita in un testo come il Berti, che è stato un caposaldo per l'alpinismo dolomitico, è imprecisa. 
Forse l'ascensione non fu verificata sul terreno; la relazione fu mal tradotta da una lingua straniera; forse ancora, nei decenni, la cima ha subito consistenti cambiamenti (un esempio simile è la Bujèla de Padeon sul Pomagagnon: la relazione di Berti del 1971, che riprende una citazione del 1900 (!), cita un “recente franamento”, che però era lo stesso nella relazione del 1928...). Fatto sta che, a chi ha provato a salirla, la cima della Croda Rotta non è apparsa certamente né "facile" né "erbosa".
E forse sarà sempre più delicata, visto che di recente una buona porzione della cresta affacciata sulla SS 51 è crollata, lasciando una lunga ferita rossastra visibile da Dogana Vecchia e colmando di detriti dello stesso colore il canale ai piedi delle rocce. 
Lo scrivente, che da giovane ebbe una certa inclinazione a corteggiare marciumi, non è mai salito sulla Croda: si è accontentato di guardarla e fotografarla dai Tondi di Faloria come dalla Val Orita, dalla Punta Nera come dal ripiano ghiaioso alla base della Sella di Punta Nera, donde la salita appare evidente. 
Più di così non ho dato a una cima che, per sventura o per fortuna, non è proprio allettante, ma in questo modo se ne rimane solitaria e indisturbata, in un silenzio rotto solo da qualche camoscio che salta sulle sue pendici.

12 lug 2016

Fuori traccia, sul Col Siro o Crépo de ra Ola

Di certo è più suggestivo l'oronimo indigeno Crépo de ra Óla (Rupe del canalone, o della cavità), riferitomi tanto tempo fa dallo scomparso Alberto Zangiacomi Śachèo, ex guardacaccia e grande conoscitore del territorio ampezzano, in confronto a quello corrente di Col Siro, che sa tanto di dedica a qualche personaggio per chissà quali meriti e motivi! 
Il Col Siro, dal sentiero Cai 213 (foto E.M.)
Il Col Siro è una cimetta foggiata a cupola e quotata 2300 m. Rientra nel gruppo del Sorapis, ed è coperto di magro pascolo sul versante affacciato verso la Punta Nera e la Zesta; dall'altro lato scendono invece brevi e modesti dirupi rocciosi. 
La cima spunta isolata dalla Monte de Faloria, al margine del comprensorio sciistico omonimo, e la sua salita si risolve in una semplice, non lunga digressione, fuori traccia, dal sentiero Cai 213. Normalmente l'approccio -fattibile anche con gli sci- inizia da Forcella Faloria, che si raggiunge comodamente dalla Capanna Tondi, famosa per il panorama, le piste e, non ultima, la "grappoteca". 
Non vale la pena, a meno che non si abbia solo voglia di vagabondare in quota, prendere la funivia da Cortina o, "eroicamente", salire a piedi dal Passo Tre Croci per Forcella del Ciadin, avendo come unico obiettivo il Col Siro. Fatti i conti, si tratta comunque di un luogo meritevole, che possiede una sua individualità e sicuramente fu frequentato ab antiquo da cacciatori, pastori e topografi; fino ad oggi, però, riferimenti storici o segni sul terreno non ne ho trovati. 
In cima, verso il Cristallo e il Popena (foto M.G.)
L'ultima volta vi salii alcune estati fa con l'amico Mirco, venuto apposta da Treviso perché curioso di quella meta. Nella penultima occasione, invece, in cui ritrovammo dopo alcune stagioni la rustica croce di rami di mughi che avevamo posato nella prima salita insieme (2003), Iside e io eravamo in compagnia di amici, stimolati anche loro da una cima più volte osservata, ma forse mai degnata di uno sguardo. 
Quella volta, eravamo scesi a Fraina per la ripida Val Orita; ma prima, mentre riprendevamo il sentiero 213, avevamo adocchiato alcuni gitanti (dal modo di parlare, immaginai che fossero padre, madre e due bambini catalani) che ci osservavano. 
Dopo di noi, anche loro si presero la briga di rimontare la crestina erbosa, non sapendo certamente dove portavano, e si godettero la visuale che la cima schiude sulla conca di Cortina. 
Così, in un solo giorno di luglio, il "Crépo de ra Ola" ricevette la visita di ben venti piedi: un primato, per un risalto accantonato a favore di ben altre eccellenze, ma che agli amanti della solitudine e del silenzio di sicuro ha qualcosa da dire.

6 lug 2016

"Ma mi faccia il piacere..." Malga Ra Stua e il Rifugio Biella non sono in Pusteria!

Cercavo nel sito http://www.altapusteria.info/it/san-candido/san-candido/shopping-gusto/rifugi-ristori.html la conferma dell'apertura di una delle tante malghe e rifugi pusteresi dove pranzare la domenica, quando ho scoperto una curiosità da "ridere, per non piangere". 
Nella serie di baite, Gasthöfe, malghe, rifugi e ristorantini in quota dell'Alta Pusteria (Comuni di Sesto, San Candido, Dobbiaco, Villabassa e Braies, per capirci), pare che siano state inserite alcune strutture "forestiere". 
Guarda caso, due di esse non sono proprio Malga (o Rifugio) Ra Stua, attribuita prima al Comune di Toblach-Dobbiaco e poi, all'interno del sito, alla Provincia di Belluno, e il Rifugio Biella, assegnato tout court al Comune di Prags-Braies? (La terza è il Rifugio - auronzano - Bosi al Monte Piana, attribuito anch'esso al Comune di Dobbiaco).
Forse qualcuno lo liquiderà come l'eterno "disguido" cui siamo  assuefatti quando si discute di pubblicità delle Dolomiti bellunesi, spesso scambiate per sudtirolesi (la questione "Tre Cime" tra Sesto e Auronzo, esplosa in questi giorni, insegna), trentine o addirittura anche friulane...
A me pare  un ulteriore, per quanto incruento, scippo ai danni della Provincia di Belluno, che verso nord finisce anche con Cortina e ospita circa il 70% delle Dolomiti dichiarate nel 2009 "Patrimonio dell'umanità Unesco". Nel caso di specie, il "disguido" danneggia le Regole e il Parco Naturale delle Dolomiti d'Ampezzo, che delle citate strutture sono le proprietarie, gestrici, curatrici e valorizzatrici.
Tre Cime di Lavaredo: cadorine per i cadorini,
pusteresi per i pusteresi? (raccolta E.M.)
La tedeschizzazione di Ra Stua e del Biella, magari, a quei rifugi farà ancora più pubblicità, ma non è il top del galateo istituzionale, nel marketing dolomitico di cui spesso si discute. Per esempio, pur avendo tre toponimi (tedesco, italiano, ladino) ed essendo molto amata dagli abitanti di Cortina, non mi sogno certo di sostenere che la Knappenfusstal - Valle dei Canòpi - Val dei Chenòpe, che da Sorabànces - Passo Cimabanche - Im Gemärk (Cortina) sale a Plätzwiese - Pratopiazza - Plèz (Dobbiaco), sia ampezzana, come la "Cortina Alta", nome con il quale anni fa si tentò di contrabbandare il nuovo Residence Ploner a Schluderbach-Carbonin di Dobbiaco.
Sia pure per pochi metri la Valle è in Pusteria, e riconosciamo la titolarità del luogo, anche se il confine con Cortina passa a filo e in zona è riconosciuto il diritto di legnatico a favore delle Regole d'Ampezzo, confermato con atto del 1980 intavolato al Comune catastale di Dobbiaco. Signori sudtirolesi, per favore, lasciamo a Cesare quel che è di Cesare!

4 lug 2016

Montagne sparite: la Saetta del Sorapis

La Saetta, dalla cresta O della Punta di Sorapis
(foto del 1973 di M. Crespan, raccolta E.M.)
In occasione del movimento tellurico che quarant'anni fa devastò in gran parte  la regione del Friuli, l’onda sismica si sentì abbastanza nettamente anche nella conca ampezzana (lo scrivente, al tempo liceale, la ricorda piuttosto bene), e interessò pure le nostre montagne. 
In quell'estate del 1976, infatti, scomparve la maggior parte della Saetta, un poderoso pinnacolo che si alzava per circa quattrocento metri sopra il Ghiacciaio Occidentale del Sorapis, in parte addossato alla parete nord-ovest della cima più elevata del massiccio. 
Il torrione, che si notava in tutta la sua originalità - ad esempio - dalla Sella di Punta Nera (dalla quale oggi è abbastanza evidente il moncone rimasto), era stato salito per la prima volta sette anni prima, il 18 settembre 1969, da tre ampezzani, Franz e Armando Dallago e Paolo Michielli. 
Per scalare la Saetta, i giovani impiegarono dodici ore e dovettero bivaccare su una spalla a cinquanta metri dalla cima prima di affrontare la lunga via di discesa: le difficoltà riscontrate raggiunsero il massimo grado previsto allora nell'arrampicata, e richiesero l’uso di oltre cinquanta chiodi. 
I tre furono i primi ed anche gli unici salitori della guglia. Pare, infatti, che nel poco tempo seguito alla complicata avventura, nessun altro si fosse più spinto su di essa, finché le scosse del 6 maggio e dell'11 settembre di quattro decenni fa la rasero quasi al suolo. 
Oltre ad altri fatti luttuosi, per la geomorfologia della conca ampezzana quella fu una conseguenza pesante di uno dei sismi più distruttivi della nostra storia recente. 
Franz, Armando (che mi ha parlato più volte della Saetta) e Paolo, ottimi esploratori delle montagne di Cortina, iscrissero quindi nel loro "palmarès" una vetta e una via di cui furono gli unici visitatori: oggi la Saetta rimane un documento storico, il ricordo di una salita forse fra le più suggestive e dure della loro carriera. 
Incredibilmente poi, quasi un trentennio dopo, per Michielli la storia si è rinnovata: nella primavera del 2004, infatti, per ragioni del tutto naturali è crollata la Trephor, la più piccola ma senza dubbio la più severa delle Torri d'Averau. 
Su quel campaniletto alto cinquanta metri proprio Paolo, con A. Zanier, alla fine d'agosto del 1967 aveva tracciato, in cinque ore e chiodando molto, una via di sesto grado superiore che oggi non c’è più.

1 lug 2016

Frammenti di storia del turismo ampezzano: i Bagni di Campo

Già molto tempo prima che le Dolomiti vedessero l'affermarsi della pratica dell'alpinismo, i viaggiatori stranieri che visitavano i Monti Pallidi erano attirati nelle principali località della Val Pusteria (San Candido, Villabassa, Monguelfo, Braies) anche dalla possibilità di usufruire di stabilimenti termali, di dimensioni e con offerte diversificate. 
Già agli inizi dell'800, anche a Cortina, nel piccolo villaggio di Campo di Sotto e sulle sponde del torrente Costeàna, che ha origine presso il laghetto di Ciou de ra Maza alle pendici dei Lastoi del Formin, era stata individuata una sorgente d'acqua leggermente solforosa. 
I Bagni di Campo in un'incisione del 1831
(da Richebuono, Storia d'Ampezzo, Mursia 1974)
Qualche accorto valligiano intuì un possibile business e portò ad Innsbruck alcuni campioni del liquido, per farli analizzare dall'esperto chimico Öllacher. Avuta la garanzia che, per qualità e combinazione chimica delle sostanze minerali presenti, l'acqua ampezzana non era certamente da meno di quelle della Val Pusteria e avrebbe potuto rappresentare un ottimo rimedio soprattutto per alleviare le malattie reumatiche, intorno al 1820 Gaetano Ghedina “Tano de chi de Tomàsc”, albergatore dell'Hotel Aquila Nera e sagace promotore del turismo ampezzano, fece costruire a Campo un piccolo stabilimento di bagni minerali, ampliato a partire dal 1831 fino ad offrire 12 vasche da bagno in legno di cirmolo. 
Il calcolo delle presenze dei bagnanti (1869: 122; 1870: 98; 1880: 25) e i risultati economici dell'impresa, però, nel corso degli anni apparvero sempre meno rispondenti alle attese. 
Così, quando l'alluvione del 1882, che tanti danni causò anche in Ampezzo (la celebre “agajon de l Otantadoi”, efficacemente descritta in un'interessante cronaca manoscritta dal giovane Gianantonio Gillarduzzi "de Jobe"), allagò senza rimedio l'edificio dei Bagni di Campo e le sue pertinenze, nessuno pensò più a ricostruirlo. 
Presso lo stabilimento diroccato, del quale oggi non si trovano più tracce, alla fine del secolo XIX la guida alpina Angelo Maioni “Bociastòrta” (1866-1953, primo salitore nel 1901 dell'ardita Torre Inglese d'Averau) edificò invece un piccolo ristorante, ampliato nel 1928 in Hotel e denominato "Tiziano".

Sachsendank 1883 Nuvolau 2023. 140 anni di storia e memoria

Ernesto Majoni e Roberto Vecellio, Sachsendank 1883 Nuvolau 2023. 140 anni di storia e memoria , pp. 96 con foto b/n e a colori, Cai Cortina...