23 giu 2020

Nuovo libretto di vetta sulla Pala Perosego

Fatti i conti, se l’è cavata benino il libro di vetta della Pala Perosego, sulla dorsale del Pomagagnon: considerata la collocazione sulla cima alla mercé delle intemperie, ha comunque resistito per 13 stagioni.
Il libretto, posato il 20.5.2007 da chi scrive sulla lama terminale della Pala, un mese fa è stato prelevato «bagnato, inzuppato e inservibile» per essere sostituito con uno nuovo da Roberto e Clara, che lo hanno sistemato per riporlo nella raccolta della Sezione del Cai di Cortina. 
Prima però, lo ha visionato il sottoscritto. Constatato che purtroppo il documento in parte non si legge più, sono emerse le tracce di circa 40 passaggi, di persone note e sconosciute, viventi e scomparse (una di esse è l'amico udinese Luca Beltrame, salito nel 2010 e caduto sulle Alpi Giulie il 25.4.2013); sono passati tedeschi, ungheresi e veneti, tra cui due alpinisti di 86 e 72 anni; si sono visti alcuni amici di Cortina, saliti anche più volte.
E forse non sono tutti, poiché risultano anche altre visite nel periodo in questione; magari qualcuno, sotto l'ometto, non avrà neppure trovato il libretto, che il vento aveva sbalzato su una cengia sotto la cima. 
Il libretto di vetta della Pala Perosego,
2007-2020
Tutto questo rappresenta un frammento di storia che, se conta poco nel complesso dei problemi del mondo, serve perlomeno a quantificare le presenze in un angolo minore e disertato, non alla moda e consegnato ad un inevitabile oblio, ma anch’esso ricco di qualcosa da dire. 
Sulla Pala ci sono ancora varie tracce di soldati in guerra; lungo il versante rivolto a Cortina salgono quattro vie, due delle quali molto dure; il pubblico sulla cima è scarso, ma chi sale dimostra di riconoscere il valore del contesto, del panorama e della solitudine della zona. 
Da quest'anno la Pala Perosego ha così il terzo libretto di vetta della sua storia escursionistica, documentata dal 2000. D’ora in avanti, esso potrà vivacizzarsi coi nomi e i pensieri di apprezzamento di coloro che, sfuggendo al consueto e usurato carosello dolomitico, lassù possono senz'altro cercare qualcosa di diverso.

17 giu 2020

Il “piccolo” Monte Popena o Popena Basso

Nel gruppo del Cristallo, cuore delle crode ampezzane, l'oronimo ladino Popena - nato dall'unione di "pó-", "dietro", e "péna", "pendio roccioso coperto da magra vegetazione" - distingue 12 luoghi diversi tra Cortina e Auronzo. 
Iniziamo a contarli. Ci sono due valli, la Popena Alta e la Popena Bassa, percorsa dalla strada Misurina-Carbonin; c'è poi una cima severa e tra le meno battute della zona, il Piz Popena; abbiamo un Passo, oggi invalicabile per le frane da cui è tormentato, che separa l'impluvio detritico verso il Rudavoi dalla Val Popena Alta.
Proseguendo, c'è la sella di magro pascolo, occupata dai resti di una casetta, che in stagioni ormai lontane fu ospitale rifugio per alpinisti e sciatori impegnati lassù. Abbiamo due torri, una delle quali salita dalla guida pusterese Michele Innerkofler il 29.7.1884, poche ore dopo aver scalato con la cliente Mitzl Eckerth la vicina e inaccessa Croda di Pousa Marza; tre torrioni, su uno dei quali già nel 1908 il giovane Angelo Dibona affrontò da solo le più alte difficoltà del tempo; al penultimo posto si piazza la grossa torre visibile da Misurina che nel 1893, dopo la salita di un colonnello e fotografo germanico con due guide, da Popena Pìciol cambiò il nome in Torre Wundt. C'è infine un monte dalle forme bonarie, bazzicato già in tempi remoti da pastori e cacciatori. 
Quest'ultimo è noto anche perché nell'agosto 1926 lo studente vicentino Severino Casara lo battezzò come comoda "palestra di roccia" di Misurina, che ebbe negli anni un grande successo; oggi sulle sue pareti ci sono molte vie di varia difficoltà, che portano i nomi di Mazzorana, dei lecchesi del gruppo di Cassin, del triestino Zanutti, degli Scoiattoli di Cortina Alverà, Apollonio, Lacedelli e Lorenzi, di Alziro e Nicola Molin, di Cipriani. 
Il monte è una cupola di 2225 m., coperta da campi di mughi in cui si avventurano i camosci, sul lato che scoscende verso la Val Popena Alta, e strapiombante invece verso Misurina con una larga parete di dolomie colorate.
Ad accrescere la confusione toponomastica, il monte ha due nomi: qualcuno lo chiama Monte Popena, altri Popena Basso, altri ancora lo scambiano persino col fratello maggiore, il Piz Popena, che gli sta alle spalle, è alto 3152 m. e ha un aspetto molto diverso. 
Il Monte Popena o Popena Basso,
dal lago di Misurina (foto I.D.F.)
Il “piccolo” Monte Popena / Popena Basso, oltre che teatro di belle salite - fra le quali due classiche, aperte dalla guida Mazzorana negli anni '30 - è il traguardo di un'escursione che prende avvio dal lago di Misurina e consente una fuga originale nella natura, molto proficua se compiuta con le atmosfere dell'autunno. Il Monte per la via più logica, un'ex mulattiera militare abbastanza ben conservata e su cui si procede in modo facile e intuitivo, è godibile soprattutto quando più in alto non si sale. Ci si muove in un bosco antico e silenzioso, si passa ai piedi di una guglia dedicata a una ragazza caduta lassù nel 1944, si rimonta un piccolo "mare" di mughi e si esce su un morbido prato, dal quale si dominano le valli, le cime, le torri, le guglie cui si accennava all'inizio. 
Da giovani, per noi Popena Basso significava "vie Mazzorana"; giunti al limite della parete, senza degnare la cima di uno sguardo si arrotolava la corda e ci si avviava veloci a valle, presi dalla fame e dalla sete.
L'ultima volta in cui siamo giunti lassù, in una nebbiosa giornata di settembre, non avevamo più corde e salimmo con calma sul culmine, dove un grande ometto di sassi resiste al tempo e alle bufere. Ci accolse la solitudine di una vetta che gli scalatori non visitano e i camminatori conoscono poco.
Superfluo constatare che, tra la nebbia rischiarata da un pallido sole, sul Popena quel giorno eravamo soltanto in due.

13 giu 2020

Sul Becco di Mezzodì, tra storia e memoria

Del Becco di Mezzodì, una cima di piccole dimensioni ma rilevante per la storia dell’alpinismo, che caratterizza il panorama sulla destra orografica della valle d'Ampezzo, mi piace scrivere.
Per vari motivi: ogni giorno lo scorgo dalle finestre di casa; fu la prima cima dolomitica che scalai, a poco più di sedici anni e con quattro amici inesperti e temerari come me; dopo diverse altre salite, è stata l’ultima ascensione in cordata, a trent’anni dalla prima; più volte ho consultato con piacere il libro posato in vetta dalla Sektion Reichenberg del Club Alpino Tedesco-Austriaco nel 1901 e rimasto lassù sino al 1917 a testimoniare nomi e pensieri curiosi ed interessanti. 
M'incuriosisce anche il nome con cui i nostri antenati indicavano il Becco, e del quale non so il perché: «ra Ziéta», la civetta, forse legato all’omonimo rapace? Al riguardo, nel vocabolario ampezzano, novant'anni fa il medico Angelo Majoni riportava un bel detto  meteorologico: «Canche ra Zieta bete su ra bareta, in poco tenpo ra peta», cioè «Quando il Becco si copre di nuvole, in breve tempo grandinerà». 
Il Becco di Mezzodì da sud, dal Monte Fertazza
(foto E .M.)
Credo che chi mastica un po’ di storia dei nostri monti, sappia che i primi due uomini a mettere piede sul Becco, il 5 luglio 1872, furono la guida Santo Siorpaes Salvadór con il cliente scozzese William Edward Utterson Kelso; il fatto, che segnò l’avvio della conoscenza delle cime che circondano il Lago di Fedèra, è ricordato dal 30 luglio 1972 con una targa all'ingresso del rifugio Croda da Lago. 
Una chicca storica legata al Becco, che ho scoperto da poco, è questa. Per trentasei anni, cioè fino al 19 agosto 1908, quando le guide Bortolo Barbaria Zuchìn e Giuseppe Menardi Berto salirono con i clienti veneti Francesco Berti e Ludovico Miari il camino nord-ovest che fronteggia il rifugio sul versante ampezzano, detto «Camino Barbaria», la scalata del Becco da Cortina - che allora faceva parte dell'Impero austro-ungarico - si poteva fare soltanto espatriando, cioè valicando, anche se per un breve tratto, il confine con il Regno d’Italia posto presso la Forcella Ambrizzola. 
La via normale che ancora si percorre, infatti, si svolge tutta sul lato sud-ovest, che ricade nel territorio di San Vito di Cadore.

6 giu 2020

Prima di salire il Piz dles Cunturines

I frequentatori di questo blog (che crede di non essere soltanto un "suggeritore" di proposte per gite o salite più o meno conosciute e pubblicizzate, ma anche la fonte di curiosità linguistiche, storiche, toponomastiche legate alla montagna) avranno quasi certamente «inventato» nella loro vita frasi, modi di dire, parole singolari, poi ricordate e usate in contesti amicali, familiari, sportivi. 
Per chi scrive, una di queste espressioni, dialettale e lapidaria, fu senza dubbio «ma agnó m aeo menà a dromì, inze un parù?» (in italiano: «ma dove mi avete portato a dormire, in una palude?»).
L’espressione ha una data e un luogo di nascita ben precisi e definiti: permane invece qualche incertezza nel ricordo di tutti gli amici che ne furono testimoni. 
Ricordo di averla coniata il 2 settembre 1979, dopo aver pernottato con parte della compagnia di allora nella casermetta che si trova a 2170 m. presso il Passo e il Lago di Limo, sull'altopiano di Fanes. Il menù del giorno seguente era il Piz dles Cunturines (3064 m.), uno dei colossi dolomitici di minor impegno alpinistico e molto panoramico, che sorge in alta Val Badia e fu conquistato nel 1880 da Santo Siorpaes di Cortina con Albrecht Grünwald. La salita riuscì poi ottimamente, con grande soddisfazione di tutti.
La circostanza fu la seguente: durante la notte tra l'1 e il 2 settembre, nello stanzone in muratura della caserma (allora in buono stato, ma impossibile da riscaldare) dove eravamo arrivati salendo per la Val di Fanes, si era formata una condensa tale che, all’uscita mattutina dal sacco a pelo, chi scrive fu obbligato a calzare gli scarponi del tutto fradici per l'umidità, avendoli incautamente lasciati nella stanza senza preoccuparsi di coprirli. 
La Caserma Mario Feruglio
presso il Lago di Limo (foto R. Vecellio)
Non so se qualcuno dei presenti ricorderà le parole con cui sbottai, seccato ma anche divertito, prima di lasciare la fredda caserma, intitolata al Capitano Mario Feruglio del 7° Reggimento Alpini, Medaglia d’Oro al valor militare nel dicembre 1917.
Io non le ho dimenticate, e mi sono tornate in mente tempo fa, mentre raccoglievo espressioni, modi di dire e parole ampezzane da destinare a un libro di prossima uscita. 
Ovviamente non ho ripescato solo la frase, legata a un contesto irripetibile: ad essa ho collegato due giorni di gioventù spensierata, un'esperienza dell’alpinismo dei nostri vent’anni, la compagnia scanzonata e altri dettagli, che lascio nel cassetto dei ricordi.

Sachsendank 1883 Nuvolau 2023. 140 anni di storia e memoria

Ernesto Majoni e Roberto Vecellio, Sachsendank 1883 Nuvolau 2023. 140 anni di storia e memoria , pp. 96 con foto b/n e a colori, Cai Cortina...