11 dic 2019

"ramecrodes" ha compiuto 12 anni!

11.12.2007: da un'idea sorta per caso, nasce "ramecrodes". Per un inghippo informatico tre anni dopo, il 28.11.2010, sono costretto a rilanciare il blog originario come "ramecrodes 2", ma fino ad ora esso è rimasto sempre fedele al proposito iniziale: in un novennio sono stati inseriti 734 post, cioè almeno un migliaio di pagine di vita e cultura alpina.
Scorrendo l'elenco dei feedback, si nota che ciò che inserisco - con cadenza piuttosto rallentata rispetto a una volta - pare ancora gradito, al passo con i tempi e con le aspettative dei lettori appassionati di montagna. Le oltre 150.000 pagine aperte fino ad oggi, lo confermano.
Ernesto, Fabio, Mario ed Enrico
sotto le 5 Torri, 1979 (arch. E.M.)
Certo, riesce un po' difficile scovare sempre argomenti, notizie e proposte originali e "up to date", anche in considerazione del fatto che la mia frequentazione della montagna praticamente si è quasi fermata.
Per questo motivo, da qualche mese "ramecrodes 2" ha scelto di concentrarsi su ricordi di vita alpina, biografie di personaggi, episodi di storia locale non solo alpinistica: pare che il blog così congegnato susciti comunque emozioni, e quindi - per non confonderlo tra i tanti contenitori di gite, scalate e sciate, e perché non sia soltanto una "guida" comoda di idee per ogni stagione (di "guide", sul mercato ce ne sono a bizzeffe) - preferisco rafforzarlo come un diario storico di montagna.
Se il proposito mantenesse il gradimento dei lettori, proseguirò così, cavalcando a passo lento fra la cronaca, la storia e la memoria. La previsione di concludere questo lungo viaggio proprio oggi, in occasione del dodicesimo compleanno, per ora si può dunque rimandare. Grazie, e buona montagna a tutti.

8 dic 2019

Visioni dolomitiche: la "Bella dormiente"

Guardando dal fondovalle, il profilo combinato della Rocchetta di Prendèra (un tempo detta solo Rochéta; il nome attuale è alpinistico) e dell'adiacente Rocchetta de la Ruoibes (nota anticamente come El Zóco), osservato da destra a sinistra, evoca il profilo di una giovane donna, distesa ed immersa nel sonno. 
Per questo motivo, al profilo è stata cucita addosso una storia da alcuni romantici, che hanno battezzato la visione dolomitica "Bella dormiente". Con un po' di fantasia, sulla cresta si può pensare, infatti, di vedere fronte, naso, bocca, mento e seno di una fanciulla che riposa al cospetto del cielo, in attesa di un principe che la baci per ridestarla. 
Anni fa, quasi persuaso di aver esplorato a sufficienza le cime ampezzane, inseguivo un'idea: sfiorare - almeno per un tratto - il profilo della "Bella dormiente". Decidemmo così di iniziare mettendo piede sulla Rocchetta di Prendèra, un belvedere a 360 gradi su Cortina, la Valle del Boite e il circondario dolomitico. Di solito sulla Rocchetta, dove soltanto un decennio fa fu eretta una croce di legno, salgono più sci-alpinisti che escursionisti; dal versante ampezzano ci si arriva in circa due ore dal Lago di Federa, per dossi detritici e erbosi. 
Le quattro Rocchette, con la "Bella dormiente"
(foto I.D.F.)
Da San Vito, invece, il “versante italiano” del Tenente Paoletti (quello che per primo salì l'Antelao e il Pelmo d'inverno), che nell'autunno 1881 mise piede sulla Rocchetta "in condizioni invernali" con la guida Gio. Battista Zanucco "Nasèla" di San Vito, ci si porta a Forcella Col Duro, oltre Forcella Ambrizzola. Da lì, per detriti ed erbe con vaghe tracce, tenendosi sulla destra del Becco di Mezzodì si raggiunge la cresta e, seguendo il "naso" della "Bella", la quota finale. 
Giunti in vetta da quel lato, dopo la meritata pausa decidemmo di scendere piegando sotto il Becco di Mezzodì in direzione di Federa, e traversammo la distesa di El Gròto, un angolo penoso da percorrere, ma affascinante quanto a naturalità. Sulla Rocchetta avevamo trovato soltanto due persone che, come noi, ripudiavano la congestione agostana; ma, alla fin fine, il tratto mancante del viso della "Bella" non lo completammo mai. 

28 nov 2019

Dieci anni dalla scomparsa di Don Claudio Sacco Sonador

Dieci anni fa di questi giorni, in una notte di luna piena che spronava a lodare il Creato, Don Claudio Sacco Sonador - "prete volante" che arricchiva la missione pastorale con la musica, il canto, la scrittura e la frequentazione della montagna - scompariva tragicamente sotto una valanga, a poco più di sessant'anni, mentre scendeva dal Pore, la cima erbosa che troneggia su Colle Santa Lucia e il Passo Giau.
Lo ricordo con grande simpatia, anche perché ... avevo un "credito" con lui, che era stato dinamico cappellano di Cortina negli anni della mia adolescenza. 
Da ottimo alpinista e trascinatore di giovani qual era, un giorno che ci trovammo all'ombra del campanile, fece una promessa: sapendo della mia passione, mi avrebbe condotto sullo spigolo della Punta Fiames, come premio per il primo esame universitario che dovevo sostenere. L'esame lo superai il 16 marzo 1978, ma lo spigolo in cordata col Don rimase purtroppo una promessa.
Don Claudio Sacco (1945-2009), 
tra i suoi monti (archivio A.A.)
Alla notizia della scomparsa, sulle falde della cima che ho visitato varie volte, mi tornarono in mente due fatti: il patto siglato all'ombra del campanile e la salita della ferrata Strobel sulla Punta Fiames, fatta con Don Claudio e altri ragazzi - all'insaputa dei miei familiari - nell'estate che seguì gli esami di terza media, quando frequentavo la Gioventù Studentesca. 
Un decennio è trascorso dalla salita in cielo di quel vulcanico sacerdote, musicista, scrittore, amante della Montagna; come in tanti altri che lo conobbero e l'apprezzarono, il suo ricordo in me è ancora presente, e mi fa piacere poterlo riproporre.

20 nov 2019

Lino Lacedelli e l'ultima salita

Caro "babo" Lino!
Sono trascorsi dieci anni da quando te ne sei andato. Tante persone ti hanno conosciuto, frequentato e ricordato in modo ampio e degno, e due nuove strutture, la palestra d'arrampicata e una pista di sci a Cortina portano giustamente il tuo nome.
Per cui, con queste quattro righe voglio soltanto rinnovare la simpatia e la gratitudine nei tuoi confronti.
Non ci frequentammo molto, ma non dimentico le occasioni in cui ci siamo incontrati in montagna (la ferrata austriaca del Coglians, 1987; a malga  Tessenberg in Austria, 2002; a Malga Federa, 2003). Ripenso anche a quant'altre occasioni avremmo potuto sfruttare, ma soprattutto a ciò che hai realizzato, con la caparbietà (per questo i primi Scoiattoli ti avevano soprannominato "Testa"...), l'orgoglio e l'umiltà della gente di montagna, la tua famiglia, la tua gente, l'alpinismo e il turismo.
L'esempio e la tenacia che hai sempre saputo dimostrare ci accompagnano. Una robusta stretta di mano, come quelle che erano il tuo famoso "biglietto da visita"!

3 nov 2019

Sulla via Adler al Monte Popena

In una giornata "da urlo", con l'amico Carlo - oggi docente universitario a Trieste - salii per la prima volta la via aperta il 17 agosto 1936 dalla guida di Auronzo Piero Mazzorana con il (o la?) cliente Mulli Adler sulla parete sud-est del Monte Popena, sopra il lago di Misurina; una salita divertente che richiede mezza giornata e si svolge in parete aperta e compatta, con difficoltà medie ma omogenee (quelle che noi cercavamo).
Tornando sotto le pareti, 
a 24 anni di distanza 

Dopo di quella, salii alcune altre volte la via, 150 metri abbastanza aerei e articolati, con ottimi scorci verso le Tre Cime e i Cadini. La buona chiodatura (oggi ci sono spit, allora c'era anche un cuneo di legno) e la discesa facile e veloce, la rendevano ideale per le nostre avventure, e l'ambiente poi ci metteva del suo. 
La Adler è la seconda delle vie che s'incontrano salendo verso la normale del Monte Popena: inizia di fronte alla Guglia Giuliana, poco prima della rampa che raggiunge la forcella tra la parete e i torrioni antistanti, nel diedro che un pilastro forma con la parete stessa. Cinque divertenti lunghezze, di cui la meno facile è quella terminale.
Ultimata la salita, con gioia di Carlo perché saliva lassù per la prima volta, ma anche con mia grande soddisfazione (visto che il 2 novembre di qualche anno prima, la Adler "non mi aveva voluto", a causa di una improvvisa nevicata), oziammo per un'oretta al sole, sotto il cielo azzurro, sulla terrazza della Pensione Al Lago di Valerio Quinz. 
Era sabato 3 novembre 1984.

31 ott 2019

Punta della Croce: cercando la solitudine

Elevazione centrale delle tre che caratterizzano la porzione a occidente della dorsale del Pomagagnon, già nota ab antiquo a cacciatori e pastori, fino al tardo '800 la Punta della Croce non aveva né un nome né una quota precisi.
Il nome glielo diede una croce, probabilmente di legno, piantata sulla cima da Giuseppe Ghedina Tomasc, la guida morta in circostanze poco chiare sul Nuvolau il giorno dell'apertura del rifugio omonimo, l'11 agosto 1883. La quota che la contraddistingue è quella di 2297 metri sul livello del mare.
Punta Fiames, Punta della Croce, Campanile Dimai (da Brite, foto E.M.) 
Non si sa perché Ghedina volle segnalare con una croce quel risalto di cresta, d'importanza tutto sommato relativa. Poco marcato, però, soltanto se lo si guarda dal lato nord, sul quale cala con un pendio di rocce e ciuffi d'erba verso i Prati del Pomagagnon, antica sede di pascolo di pecore. 
Sul lato di Cortina, invece, dalla Punta scende una parete solcata da un'evidente fessurazione; parete che – per quanto sia soltanto in parte verticale – supera i 600 metri d'altezza. 
Pur essendo stata scalata già all'alba del 20° secolo dal germanico Felix Pott con le guide Giovanni Siorpaes e Agostino Verzi, la Punta della Croce non gode della fama delle sue vicine, la Punta Fiames e il Campanile Dimai. Nemmeno la via più agevole per la cima, che richiede circa mezz'ora da Forcella Pomagagnon e presenta difficoltà nel complesso ridotte, suscita eccessivi entusiasmi, anche se fino agli anni '70 la Punta era una delle mete previste nelle gite estive delle guide ampezzane. 
Domenica 31 ottobre 1999, giusto vent'anni fa, era una giornata di sole e di cielo, proprio rubata all'estate; intorno a mezzogiorno giungevo di nuovo, con gli amici Claudia e Alessandro, sulla cima, dove passammo un'oretta di beata contemplazione. Perché mi piaceva la Punta (ma tutta la dorsale del Pomagagnon mi è sempre piaciuta), e perché la salii più volte, fino a quel giorno d'autunno, dopo il quale mi sono sfuggite le occasioni di tornarci? 
Perché una volta sulla sommità, dove non c'è più traccia della croce e ti accoglie soltanto un ometto di sassi, basta spingere lo sguardo - viene quasi spontaneo - sulla dirimpettaia Punta Fiames, cima alla moda e animata per vari mesi all'anno da ferratisti e scalatori. Ci si renderà conto che la Punta della Croce è sì una montagna di minore rilevanza, ma anche un'oasi di solitudine, che merita di essere cercata.

20 ott 2019

Marino Bianchi, il "Signore delle Montagne", 50 anni dopo

Marino Bianchi non è più tra noi. Era un uomo che adorava la montagna. Un uomo che per «andare in montagna» non era mai stanco. Era un uomo tranquillo, aperto, dedito alla famiglia, libero da preconcetti, desideroso di riuscire in qualunque cosa nella vita. Era legato ad un lavoro silenzioso a contatto con la natura, nato perciò per fare la guida alpina. Marino ha tratto in salvo molte persone che si erano ferite in montagna, senza prendere nessuna ricompensa, era perciò un uomo di buon cuore. Scalò tutte le vette delle Dolomiti ed il Kilimangiaro. Dopo ogni impresa descriveva con grande signorilità le sue impressioni sulle scalate. Morì la sera del 23 ottobre 1969 cadendo dalla Torre del Lago. Il giorno prima della tragedia disse: «Sono vecchio, ma la montagna mi vuole molto bene.»” (E.M.)
È il testo, comprensivo di un paio di piccoli errori, del componimento scritto da me undicenne, sotto la guida della docente Betty Menardi, nell'anno scolastico 1969-70 per “La nostra valle” (numero unico dedicato a Cortina d'Ampezzo dalla classe 1a D della Scuola Media Statale), in ricordo della guida Marino Bianchi. Il giornalista in erba che esordiva con quel breve scritto quasi mezzo secolo fa, per il quarantennale dalla morte dedicò poi a Bianchi la biografia “Il Signore delle Montagne” e oggi vuole ricordarlo ancora una volta a cinquant'anni esatti dalla fatale caduta del 21 ottobre 1969 sui monti di Fanes.
Marino Bianchi (1918-1969)
Nella valle d'Ampezzo e non solo, la memoria di Marino “Fouzìgora” è ben viva: nei congiunti e negli amici, in chi lo conobbe, gli fu compagno nel lavoro e in montagna. Il ricordo rimane nelle vie aperte sulle rocce dolomitiche e africane, nella ferrata da Forcella Staunìes alla cima del Cristallo di Mezzo, nel documentario dedicatogli dal regista Giuseppe Taffarel nel 1962, in tante fotografie, nel libro del 2009 e nella guglia della Croda da Lago che porta il suo nome. 
In quest'occasione, vada ancora un pensiero a quella figura di uomo sempre disponibile, di sportivo e alpinista impegnato sulle montagne e nel paese, dagli anni '30 fino all'ultimo giorno. Ad una persona che ha lasciato una traccia luminosa nella storia di Cortina del ventesimo secolo.

15 ott 2019

Angelo Colle, guida alpina d'altri tempi

Ripercorrere la vita di qualcuno attraverso immagini non è sempre agevole, ma utile comunque per scoprire cosa ci sia dietro ambienti, situazioni, volti. Una vecchia foto, inerente all’alpinismo e utile per questa prova, risale al 1913 e ritrae 19 guide alpine di Cortina d'Ampezzo.
Dovrebbe essere l'ultima fotografia ufficiale di un gruppo di guide di Cortina prima della Grande Guerra, che stravolse senza rimedio le usanze antiche e aprì mondi nuovi. Lo sfondo del ritratto, che ne segue altri risalenti al 1893, 1897 e 1901 e non include comunque tutte le guide in servizio, dovrebbe essere l’Albergo, poi Rifugio Cinque Torri, amato punto di ritrovo fin da inizio secolo. 
Tra i signori con tanto di barba, cappello e mustacchi come d'uso si vedono Antonio Dimai (1866-1948, 4° da sinistra seduto), e Angelo Dibona (1879-1956, seduto davanti nel mezzo). Una delle guide in posa non tornò dal fronte (Celestino de Zanna, 1877-1915, 4° da sinistra in seconda fila); un’altra, Agostino Verzi (1869-1958, 1° da destra davanti), risulta aver calcato montagne fin quasi alla 2a guerra mondiale.
Non mancano personaggi passati nella storia senza clamori; ad esempio Angelo Colle (3° da sinistra seduto), nato esattamente centocinquant'anni fa, dall'aspetto quasi pingue e dallo sguardo bonario e sornione. La Sezione Ampezzo del D.Oe.A.V., fondata nel 1882, gli aveva permesso di svolgere la professione di “Bergführer” all’età, ormai quasi veneranda per l’epoca, di 36 anni, dopo aver respinto più volte le sue domande di ottenere la licenza. Nella “Guida della Valle di Ampezzo e dei suoi dintorni” del 1905, Colle è registrato ancora come “aspirante”, accanto ai giovani Arcangelo Colli, Celestino de Zanna, Florindo Pompanin e Baldassare Verzi.
Ottenuta l’agognata autorizzazione, Colle se la tenne stretta e la rinnovò sino al 1932, gestendo nel contempo per un periodo il rifugio Antonio Cantore, ricavato dalla caserma di Forcella Fontananégra, tra le Tofane di Rozes e di Mezzo e nei pressi della storica Tofanahütte. 
La guida vantava un'unica prima ascensione, la Cima V di Furcia Rossa nel gruppo di Fanes. Su di essa, il 6 agosto 1909 il Nèno scortò i tedeschi Thiel, Jung e Kleyensteuber, lungo un tragitto poi agevolato in guerra da cospicui lavori, poiché tutta la linea di cresta fu saldamente in mano agli austriaci.
Di Colle, spentosi nel 1960, non rimane la memoria di ardite imprese alpinistiche, ma più quella di un esponente della Belle Époque ampezzana a cavallo tra Otto e Novecento. Leggendo tra le righe, nel ritratto di gruppo del 1913 pare di scorgere, più che una rude guida, quasi un dandy brillante e loquace, disposto a intrattenere il pubblico durante le sue avventure alpine con battute e storie, e magari anche a spararle grosse.

4 ott 2019

Quelli della Fessura Dimai in Cinque Torri

Angelo e Giuseppe Dimai "Déo" furono due grandi alpinisti ampezzani. Nipoti di uno dei primi a far conoscere le cime della valle ai pionieri venuti da lontano, il guardaboschi Angelo Dimai, erano figli di uno degli esponenti più significativi dell'esplorazione dolomitica tra fine '800 e la Grande Guerra, Antonio, "Tone" Dimai. Seguendo la tradizione della famiglia, che nel suo ambito contò ben sette guide, lo divennero anche loro, Angelo nel 1922 e Giuseppe nel 1925.
Saliti subito alla ribalta con ascensioni di rilievo sui monti di casa, il 29 giugno 1927 i fratelli salirono la Torre Grande d'Averau da sud con l'amico Arturo Gaspari, aprendo una via (la "Miriam") che divenne presto famosa e dopo tredici anni toccò la 100a ripetizione.
Il 31 agosto 1932, in una mattina piovosa, Angelo, Giuseppe e il collega Celso Degasper superarono in sole due ore la fessura sottile e diritta come un fuso che taglia la parete est della Torre Grande. La via Dimai-Degasper, nota a Cortina come "El Ris", un mese e mezzo dopo l'apertura era già stata salita dieci volte e nel tempo fu apprezzata da molti personaggi famosi, sia italiani che stranieri.
La Torre Grande,: sulla sinistra
 la Fessura Dimai-Degasper   (foto E. Maioni)
Angelo e Giuseppe continuarono poi la loro attività con importanti ascensioni, rendendosi celebri soprattutto con la prima della Nord della Cima Grande di Lavaredo, scalata in tre giorni con Emilio Comici. Era l'estate 1933, e l'impresa rimane una pietra miliare nella storia dolomitica.
Dopo la prima salita, Giuseppe ripeté la “sua” fessura per altre tre volte; nel 1934 aprì con tre colleghi la "Diretta Dimai", ancor più dura della vicina fessura, e fece la guida fino al 1943; poco più che quarantenne, fu purtroppo stroncato da una malattia. Secondo la testimonianza raccolta dallo scrivente in una escursione con lui, il fratello Angelo arrampicò invece fino ai primi anni '50, assumendo nel contempo cariche amministrative di rilievo in società locali.
Angelo conservò fino alla fine una grande passione per le crode. Il 14 agosto 1983 chi scrive lo trovò ai piedi delle Tre Cime di Lavaredo, dov'era salito con alcuni parenti nel giorno esatto del 50° dell'ascensione della Nord della Grande, che consacrò sì il nome del triestino Emilio Comici, ma anche quello dei due fratelli di Cortina.

26 set 2019

Il Torrione Scoiattoli: isolato e scorbutico, ma stuzzicante

Numerose cime attorno a Cortina si scorgono soltanto da molto vicino, da prospettive o in contesti di tempo particolari. Questa peculiarità, singolare ma non unica, le ha in un certo qual modo difese da sconsiderati assalti, agevolazioni turistiche, banalizzazioni metalliche, lasciandole padrone del loro isolamento, della solitudine e, inevitabilmente, esposte anche alle crescenti stranezze climatiche, che non è scontato non le insidino.
Una di queste cime è senza dubbio il Torrione Scoiattoli, nell'angolo settentrionale della dorsale del Pomagagnon. La massiccia formazione, alta oltre 200 metri e quasi schiacciata dalle retrostanti Pale de ra Pezories, si individua con un po’ d’occhio dai paraggi di Fiames, ma non è così marcata da suscitare né ammirazione né contemplazione.
Il Torrione venne "conquistato" per la fessura ovest e battezzato il 29.6.1955, da tre ragazzi di Cortina: Guido Lorenzi, Arturo Zardini ed Albino Michielli, tutti scomparsi da decenni. La loro salita, che non è noto quante ripetizioni possa contare, dopo una dozzina d'anni fu affiancata da una seconda via, aperta sul lato nord  il 7.7.1967 da Franz e Armando Dallago, e quindi da una terza, tracciata ancora sul lato ovest, dalle guide Alfredo Pozza e Mauro Valmassoi con Maria Petillo l'8.8.1992.
Lo scontroso Torrione Scoiattoli, 
da Fiames (ph. I.D.F., estate 2019)
L'itinerario meno difficile dei tre possibili per guadagnare la vetta supera il 5° grado, la discesa è complicata e non è difficile supporre che la guglia non sia un "must" per folle di aspiranti salitori. Essa è inserita in un angolo piuttosto selvatico, anche se non troppo distante dalla trafficata Statale d'Alemagna, tra gole detritiche, robusti mughi e rocce che si muovono di continuo, isolandola sempre più.
Non conosco le pareti del torrione, la cui sommità raggiunge "solo" i 1889 metri; ne sono però passato più volte ai piedi, immaginando la fantasia di Guido, Tamps e Strobel che chissà come lo scoprirono, e poi lo salirono sessant'anni fa e più, dedicandolo agli Scoiattoli di allora e di oggi.

12 set 2019

Punta Marietta, una cima misteriosa

Una cima in vista, in un punto fra i più visitati delle Dolomiti: nonostante questo, di essa si conosce poco e riserva ancora interrogativi storico-alpinistici. Mi riferisco alla Punta Marietta, torrione diviso in due guglie che si alza sul versante est della Tofana di Rozes, dalla schiena detritica lungo cui sale la via normale.
Sembra che la Punta celi qualche stranezza, dicevo. Prima: quotata 2973 m, ha un nome italiano, pur essendo stata salita in epoca austro-ungarica (4/7/1894), da sudditi tirolesi (J. Müller con le guide Angelo Zangiacomi "Pizenin 'Sachèo" ampezzano e Luigi Bernard, fassano di Campitello). Come era frequente nel periodo pionieristico, le guide erano già salite in vetta, per proporre poi al cliente una primizia.
Punta Marietta: sullo sfondo, la Tofana di Rozes
(foto D.D.V., 3.9.2019)
Seconda stranezza. La cima fu occupata a scopo tattico-strategico il 2/8/1915 da una pattuglia di Alpini: si potrebbe così pensare che l'avessero battezzata i soldati, forse col nome di qualche giovane della zona. Si è riscontrato però che il nome identificava la Punta già prima della Grande Guerra (Von Glanvell, Dolomitenführer - 1898); quindi si chiamava Punta Marietta  fin dalla conquista.
Dopo il conflitto, il 29/8/1923, la scalò per una nuova via Oliviero Olivo - cadorino di origine - che in quegli anni sfiorò da solo il VI grado sulle Marmarole. C'è infine notizia di una terza via, opera di Bruno Menardi Gim, guida che fino al 1972 gestì il sottostante rifugio Cantore.
Due cordate, di cui una capeggiata da una guida ampezzana, sulla Marietta persero un po' la bussola: non riuscirono a trovare la via originaria, e tanto meno la Olivo. Delle tre, l'una: o in un secolo (un po' di più, visto che il primo dei tentativi, quello senza guida, fu ideato nel luglio '94 per ricordare il 100° della conquista), la geomorfologia della cima si è così modificata da sconvolgerne i versanti; oppure le relazioni seguite erano errate oppure ancora i salitori non ci capirono niente.
Resta il fatto che non la salirono e uno dei quattro ogni tanto pensa ancora a chi abbia battezzato Punta Marietta, visibile fin dal Cadore e tanto massiccia quanto ignorata dall'alpinismo.

6 set 2019

Punta Giovannina, oceano giallo-nero

Nel cuore delle Tofane, sul versante sud-ovest della Tofana di Mezzo, c'è una punta, separata da essa dalla Forcella del Valon, l'alta insellatura che tocca chi traversa dalla Tofana Terza o dalla Seconda al rifugio Camillo Giussani. 
La punta, quotata 2936 m, domina Forcella Fontananegra con una parete giallo-nera perlopiù verticale e strapiombante alta circa 350 m, e si chiama Punta Giovannina. 
Punta Giovannina, col rifugio Camillo Giussani
(foto D.D.V., settembre 2019)
Dubito siano in molti a conoscere l'origine di questo oronimo, legato a una donna. Il nome della Punta fu suggerito dalla guida Celso Degasper (1903-84) che il 5 ottobre del 1933, in cordata con il collega e coetaneo Giuseppe Dimai Deo (1903-46), salì per primo la Punta dal versante sud. 
Per festeggiare la salita, la Punta innominata fu dedicata a Giovanna Apollonio, consorte di Degasper. La via delle guide ampezzane sulla Giovannina, ripercorsa  per la prima, e con una certa probabilità anche unica volta, il 16 luglio 1951 in meno di tre ore dagli Scoiattoli Ettore Costantini (1921-98) e Bruno Alberti Rodela (1925-2002), oggi non si salirebbe più a causa di un franamento che la sconvolse qualche decennio fa. 
In compenso, sulla parete che guarda il rifugio Giussani, dal 1960 in poi sono stati tracciati altri itinerari. Iniziarono, in quattro giorni di scalata, Albino Michielli, Lino Lacedelli e Claudio Zardini, seguiti nel 1968 da Ivano Dibona e Diego Zandanel, che per la loro via impiegarono tre giorni; nel 1975 toccò a Carlo e Agostino Demenego e infine, nel 1996, Davide Alberti e Paolo Tassi hanno concluso, almeno fino a ora, la cronologia alpinistica della Punta.
Sulla sommità suppongo sia possibile arrivare con difficoltà moderate, in traversata da Forcella del Valon, ma non mi sento di confermarlo, non avendola mai raggiunta e mancando di notizie in merito.

22 ago 2019

Un paradiso da salvaguardare: la Sella dell'ex rifugio Popena

Nel 1938, sull'ampia sella tra il Corno d’Angolo e le Pale di Misurina, dove le Torri di Popena dividono la testata della Val Popena Alta in due conche e a pochi passi dal confine fra Auronzo e Ampezzo, il trentino Lino Conti aprì - a prezzo di grandi fatiche - un piccolo e grazioso rifugio. 
L'iniziativa mirava a fornire la zona di una base per salire e conoscere le cime dei dintorni (il severo Piz Popena proprio di fronte, il facile e malsicuro Corno d’Angolo dove salì anche Comici, il Cristallino di Misurina celebre in guerra, la Croda di Pousa Marza dominio di Michl Innerkofler, le guglie di Val Popena Alta testimoni dei quinti gradi di Dibona e Dulfer, le mansuete Pale di Misurina, la Punta Michele di Eckerth e poi di Casara), e anche per una frequentazione invernale della valle, da decenni meta scialpinistica. 
... e i ruderi stanno a guardare ...
(foto I.D.F.)
Il rifugio ebbe vita breve, poiché fu distrutto da un incendio nel secondo dopoguerra, e non più ricostruito. La questione del rifacimento è tornata di nuovo alla ribalta, sostenuta da un noto scrittore, ed ogni stagione potrebbe essere quella buona per avviare la "valorizzazione turistica" di quei sassi ultra settuagenari che occhieggiano malinconici sulla sella, un paradiso tra crode semi deserte. 
Il valico funge da snodo per escursioni e salite molto interessanti, e secondo molti la struttura sarebbe indispensabile, pur trovandosi solo a un’ora di cammino dal traffico di Misurina e in un contesto ambientale ben preservato. Il sottoscritto, dovendo scegliere, preferirebbe senz'altro che la sella – anziché l'ennesimo ristorantino d'alta quota con menù gourmet o una finta malga – ospitasse al limite solo un rustico ricovero per il maltempo. Sarebbe un “affare” per l'alpinismo, la storia e la natura, non certamente per l'economia. Però così la franosa Val Popena Alta non rischierebbe di ricadere nella banalizzazione, magari riempiendosi di “quad”, motoslitte e quant’altro, e si sottrarrebbe ai successi ed  eccessi di un turismo spesso cafone ed improvvido. Si attendono sviluppi: se non ne verranno, ci riterremo ugualmente soddisfatti e anche di più.

16 ago 2019

Giovanni, un rifugio e tre torri

Il 25 novembre 1939 morì in tarda età un ampezzano noto per intraprendenza, irrequietezza e originalità: Giovanni Barbaria detto Zuchìn. 
Falegname, divenne guida nel 1875 e fu la prima della seconda generazione. Andava in montagna anche perché - seppur molto giovane - aveva già famiglia (il primo figlio Bortolo, destinato anch'egli alla carriera di guida, era nato nel 1873). Forse qualcosa non girò per il verso giusto e così di punto in bianco l'estroso Giovanni se ne andò in America, senza preoccuparsi di avvisare i parenti. Dieci anni dopo fece ritorno e riprese tranquillamente la vita di sempre.
Il Tridente Cantore, dal rifugio omonimo
(cartolina anni '40, raccolta E.M.)
Al suo nome si contano alcune prime salite sulle cime della Croda da Lago, delle Marmarole e in Tofana. In quel gruppo, di fronte alla Tofanahütte inaugurata 133 anni fa (il 16 agosto 1886), col figlio e due austriaci il sessantenne Barbaria salì le guglie chiamate dapprima Wienertürme-Torri Viennesi e nel dopoguerra Tridente Cantore, in omaggio al Generale caduto lassù il 20 luglio 1915.
Intuendo lo sviluppo turistico dell'area del lago di Federa, dominata dal Becco di Mezzodì e dalla Croda da Lago e nota a turisti e alpinisti fin dal 1872, all’inizio del secolo Giovanni aveva voluto dotarla del primo rifugio del gruppo. Il terreno e il legname da opera glieli aveva donati la Magnifica Comunità d'Ampezzo, che nel contratto di concessione inserì anche una clausola curiosa: “... non abusare nel somministrare bevande ai pastori” della vicina malga di Federa. Non si sa la guida se l'abbia rispettata in pieno.
Il rifugio aprì il 2 settembre 1901, ma non ebbe vita facile; quattro anni dopo Barbaria si stufò e lo vendette, trovando l'acquirente nella Sektion Reichenberg del Club Alpino Tedesco-Austriaco. Nonostante la zona richiamasse già molti alpinisti, i guadagni non corrispondevano alle aspettative del proprietario: si diceva però che Giovanni non negasse mai da bere ai visitatori amici, ovviamente gratis!
Conclusa la parentesi da rifugista, il Zuchin continuò come guida ancora per qualche tempo; con la Grande Guerra, come altri colleghi, si pose a riposo e passò il resto della sua esistenza ricordando il passato e trasmettendo le sue esperienze ai giovani, tra i quali il nipote Giovanni, guida dal 1931 ed ultimo del ramo familiare, cessato con lui nel 1982.

7 ago 2019

Amedeo Girardi e le "sue" vie nuove

Sulla lapide posta nel cimitero di Cortina a ricordo dei cittadini benemeriti, appare il nome di Amedeo Girardi "de Amadio" (1877-1933). Conduttore dell’Hotel Vittoria, alla fine del 19° secolo - quando studiava legge a Innsbruck – s’impegnò politicamente a favore dell’irredentismo, cosa che nel suo paese, per ovvi motivi, non poteva essere apprezzata. 
Torre Grande d'Averau, parete nord
della Cima Nord (foto E.M.)
Di Girardi e della sua militanza filo-italiana, però, si è dato conto in altre sedi. Qui l'uomo interessa perché, tra le varie attività, trovò anche il tempo di fare dell'alpinismo. Nelle cronache del primo '900, infatti, lo si trova citato più volte. La prima il 17 agosto 1910 quando, col farmacista Leopoldo Paolazzi e le guide Angelo Dibona "Pilato" e Celestino de Zanna "de Bèpe de Pòulo" (coetaneo di Amedeo, disperso in Russia nel 1915), Girardi fece parte dei conquistatori dell'arcigno Campanile Rosà, nel gruppo della Tofana. 
Posto di fronte all'omonimo Col, il campanile - un centinaio di metri di buona dolomia - fu salito in quattro ore con l’uso, insolito per il capocordata Dibona, anche di alcuni chiodi. Nell'ottobre successivo, con le stesse due guide l’albergatore partecipò alla prima salita della parete nord della Torre Grande d’Averau - Cima Nord: nella cordata iniziale, verticale ed esposta, i tre incontrarono difficoltà di V, che superarono senza usare mezzi artificiali. 
Nel mese di settembre 1911 Amedeo tornò sulle torri d'Averau dove, sempre con Dibona, firmò la prima ascensione di ambedue le guglie (la Bassa e la Alta) che formano la Torre Quarta. Gli ampezzani tracciarono due itinerari di difficoltà media, molto frequentati ancora oggi. 
Altre informazioni sull’alpinista Girardi, per ora, non ne ho trovate: penso comunque che nel periodo antecedente la Grande Guerra, ricco di successi per l’alpinismo ampezzano, abbia vissuto sicuramente altre avventure. Queste contribuirono ad arricchire la storia locale e a far sì che il suo nome resti ancora presente su ben quattro cime attorno a Cortina.

25 lug 2019

Chi scoprì la variante al "Camin de Frasto" sulla Punta Fiames? Piccolo mistero dell'alpinismo ampezzano

Conosco bene la via Dimai-Heath-Verzi sulla Punta Fiames del Pomagagnon e la sua storia. Pur avendo consultato varie fonti bibliografiche però, non sono ancora riuscito a rispondere a uno di quei micro-enigmi che solleticano la curiosità e arricchiscono la storia dei nostri monti.
Chi scoprì, e quando lo fece, la risolutiva variante al passaggio chiave della via sulla parete sud-est della Punta, classica intramontabile aperta nel 1901?
La variante, lunga forse 30 metri e abbastanza tosta, aggira lo scuro camino, scivoloso se bagnato dall'acqua che cola dall’alto, che ha preso il nome di «Camin de Frasto» dopo una tragicomica avventura accaduta lassù al corpulento Teofrasto Dandrea «Jàibar».
Lungo il "Camin de Frasto" (foto F.G.)
Per evitare il camino quando non era in buone condizioni, per tradizione si usciva alla base, si traversava sul labbro sinistro e, stando attenti alla trazione della corda sullo spigolo intermedio, si rimontava l'espostissima parete parallela al camino; su di essa, almeno ai nostri bei tempi, faceva mostra di sé un chiodo, che dava la giusta sicurezza per mirare in alto senza guardare in basso.
Nelle descrizioni e schizzi delle guide d'arrampicata, anche di quelle recenti e più analitiche, non ho trovato traccia della furba scappatoia che, allo scrivente come a molti altri, consentì di eludere più volte lo scabroso anfratto, salito per la prima volta dalla guida Antonio Dimai e oggi valutato 4b. Il camino ha affidato all’aneddotica l'immagine di «Frasto» (1862-1944), insegnante, oste e albergatore che nel triennio 1898-1901 resse la Sezione Ampezzo del Club Alpino Tedesco-Austriaco e si rese benemerito in vari ambiti. Proprio in quel camino, il 13 settembre 1905 Dimai «Tone Deo» e Verzi «Tino Sceco» riuscirono a mettere bonariamente un freno all’abituale arroganza del loro compaesano. Ma della variante nessuno sa alcunché.

22 lug 2019

Il poco noto "Troi dei milezinche"

Lungo la Strada Statale 51 d’Alemagna, poco prima di Carbonin-Schluderbach e accanto alla tabella che precisa la quota altimetrica, un piccolo slargo a bordo strada ospita spesso veicoli in sosta. Quando ve ne sono, solitamente appartengono ai battitori di un sentiero che nessuna pubblicazione o cartina considera, ma esiste ed è noto sia nella valle d'Ampezzo sia in Cadore e in Pusteria. 
Il sentiero si chiama “Troi dei milezinche” (“sentiero dei millecinquecento”), “Troi de Mariano” o (secondo una recente testimonianza) "Sentiero blu". Anzitutto, qual è l’etimologia del nome? Il primo, più diffuso significato nasce dal fatto che il sentiero inizia proprio a quota 1500 m. Il secondo ricorda Mariano Gaspari "Baldo", falegname ampezzano deceduto nel 1990, che lo percorreva spesso, decantandolo a paesani e amici; il terzo, più banale, deriva dal fatto che la traccia è segnata con pochi bolli di colore blu. 
Ma dove si trova, e a cosa serve? Col "Troi" si può salire all’altopiano di Pratopiazza-Plätzwiese tenendosi lungo le pendici del Col Rotondo dei Canopi-Knollkopf, nel pieno della fascia boschiva che sovrasta la Strada Statale 51, ed esso è meno lungo e più piacevole della carrareccia che sale da Carbonin al rifugio Vallandro. 
Il “Troi” inizia sulla strada, s’inerpica piuttosto ripido per un tratto, percorre una terrazza boscosa alta sul Rio di Specie-Platzerbach e, valicata una recinzione di pascolo tra i territori di Dobbiaco e di Braies, a 1900 m circa e presso alcune sorgenti si unisce alla carrareccia che percorre la Val di Specie, di recente dedicata a Paul Grohmann.
Il Col Rotondo dei Canopi,
dal termine del "Troi dei milezinche" (foto I.D.F.)
Facile da smarrire in un paio di punti, qualche anno fa fu segnalato con qualche bollo, poi cancellato forse da cacciatori, decisi a difendere la "privacy" venatoria della zona. Pur trovandosi in Pusteria è conosciuto anche da diversi appassionati della nostra provincia e non, e pure chi scrive l’ha percorso più volte, d'estate come d’inverno. 
È singolare, ma non ci turba per nulla, che la traccia non sia universalmente pubblicizzata, e venga praticata - in alternativa alla lunga e monotona strada bianca - solo da pochi buongustai, che accedono per un paio d’ore a una zona solitaria, certamente più calpestata da animali che da esseri umani.

24 giu 2019

Ciao Gianni! Per Gianni Pontel, alpinista e amico (1941-2019)

34 anni fa, ai primi di settembre. Ero giunto da poco ad Aiello del Friuli per svolgervi il servizio civile; non conoscevo ancora nessuno e mi dissero di presentarmi a Gianni Pontel, appassionato di montagna e bravo scalatore, un’autorità in materia in un paese a 17 metri sul livello del mare. 
Ernesto, Andrea (+), Paolo e Gianni (+)
in vetta al Monte Verzegnis, 6.1.1986
Detto e fatto: suggellata la conoscenza davanti a una bottiglia di bianco e recuperati uno zaino e un imbrago, domenica 8 settembre con Gianni e Paolo Birri andai a tentare una via nuova tra le Crode dei Longerin. Avevo già salito tante cime, ma l'esperienza della via nuova mi mancava. Ogni dubbio si sciolse subito pensando che ero piuttosto in forma, sette giorni prima avevo fatto lo Spigolo Dibona sulla Grande di Lavaredo, e soprattutto mi stavo affidando a due rocciatori più grandi di me, entusiasti e molto comunicativi. 
La via non ci riuscì: dopo un paio di cordate, ci fermò una parete marcia dove sarebbero occorsi fittoni più che chiodi, e a malincuore dovemmo ripiegare. Non tutto però era perduto: l’instancabile e pragmatico Gianni propose di "consolarci" con una via del suo amico Bulfoni su una guglia vicina, che solo anni dopo seppi chiamarsi Torrione Ezio Culino. Dopo tanto cammino non potevamo certo sprecare la giornata, e quella via poteva fare al caso nostro! 
La parete, 300 metri di III, fu un’esperienza senza infamia né lode: dopo quattro cordate preferimmo slegarci e salire ognuno per proprio conto in vetta allo slanciato torrione, posto al centro di un anfiteatro delizioso, allora a me sconosciuto pur trovandosi a soli 60 km da casa mia. In vetta, respirai a pieni polmoni il piacere della salita, della compagnia, del mio “battesimo” alpinistico con gli amici di pianura, svoltosi rapidamente e con successo. La discesa fu quasi più complicata della salita, ma tutto andò bene e tornammo soddisfatti a Casera Melin per il bicchiere della staffa. 
Ero al settimo cielo: avevo ripetuto una via di un ottimo scalatore friulano e proprio nel suo regno, i Longerin. Ho rivisitato ancora la zona, l'ultima volta una decina d'anni fa: il torrione sul quale Gianni e Paolo mi offrirono per la prima volta la corda e l'amicizia per una salita in compagnia, ormai mi era familiare. 
Ieri purtroppo, dopo anni di tormenti, Gianni ha smesso di combattere e ci ha lasciati: lo ricordo qui con affetto, simpatia e particolare nostalgia, per quella giornata di oltre trent’anni fa e per molte altre trascorse insieme d’estate e d’inverno, per ognuna delle quali avrei un ricordo da raccontare. 
Mandi Gianni, riposa in pace.

10 giu 2019

Salendo la Croda Rotta: dov'è l'erba?

Una slanciata appendice della Punta Nera, nel gruppo del Sorapis, chiude verso ovest l'impluvio detritico alla testata della Val Orìta culminando a 2670 m d'altezza. Raggiunta in epoca e da persone ignote, fu denominata "Croda Rotta", un toponimo che parla da solo. 
Per farsi un'idea della consistenza, basta osservare la cuspide, che si affianca dirigendosi da Faloria verso la Sella di Punta Nera per l'accidentato e faticoso sentiero Cai 215, che poi scende in ambiente grandioso al lago del Sorapis.
Un giorno, avendo letto la brevissima relazione della guida Berti, che prometteva un accesso alla cima "facile e su terreno erboso", mi venne in mente di andare a vedere, abbinando magari la Croda alla soprastante Punta Nera, grande e poco frequentata montagna. 
La Croda Rotta,. osservata dalla via normale
alla Punta Nera (foto M.G., luglio 2008)
Ero solo e mi limitai alla Punta Nera, ma al momento non mi pentii. Seppi poi da un conoscente, sbucato quasi per caso lassù durante una rocambolesca galoppata solitaria da Cortina a Cortina attraverso Faloria, i Tondi, la Punta Nera e il rifugio Vandelli, che la Croda Rotta non gli si era dimostrata né facile né tanto meno erbosa, ma l'ascensione si risolve in una lunga e ripida placca, con ghiaia scivolosa e passaggi delicati, dove il conoscente disse che il problema non fu tanto salire, quanto tornare indietro. 
Ho raccolto poi altre testimonianze di salite sulla Croda, tra cui quella di Sandro (inserita nel volume "Cime attorno a Cortina. 130 vie normali ...", che uscirà quest'estate per i tipi di Idea Montagna a Padova). Leggendola, ho rivissuto la mancata salita alla cima, visibile da Cortina, dall'accesso non molto lungo se si approfitta della Funivia Faloria e fonte di un vasto scenario sulla valle d'Ampezzo e oltre. 
Con buona pace dell'inimitabile Berti, mi sono chiesto: perché nel 1928, 1950, 1956, 1971 (anni di pubblicazione delle edizioni della guida delle Dolomiti Orientali) si volle scrivere, e riscrivere che la cima è “facilmente accessibile, preferibilmente dalla forcella tra Croda Rotta e Punta Nera, nei pressi della Sella di Punta Nera, per terreno in gran parte erboso”? Dove mai sarà finita l'erba che decorava la cima, oggi sconsolatamente pietrosa e malferma?

4 giu 2019

Alla scoperta del Sas Peron, falesia mancata

Un pomeriggio della primavera 19.., con Carlo, Sandro e qualche altro - attrezzati in maniera primitiva e, come al solito, di nascosto dai genitori - partimmo in bici col fermo proposito di conquistare il Sas Perón. 
La "nostra" falesia del Sas Peron
(foto E.M., 15.9.2013)
Il Sas (in italiano «Sasso Sassóne») è un alto blocco dolomitico che si fa largo tra gli alberi sulla destra del Boite, di fronte alla fabbrica Lacedelli a Nighelònte. Ben visibile dalla Statale 51 poco oltre le case di La Vèra, il blocco chiude a meridione la strettoia che la valle d’Ampezzo incontra a Fiames. 
Ai suoi piedi passa una carrareccia militare, numerata dal Cai col 413 e frequentata sia a piedi sia in MTB, che unisce Fiames alla borgata di Cadin di Sopra e fu la meta di tante nostre escursioni familiari. 
Il misterioso culmine del Sas - che si eleva modestamente a 1342 m. di quota e dovrebbe essere il meno alto d’Ampezzo - si potrebbe salire con minimo dislivello dalla strada, anch'essa militare, che dal campeggio di Fiames porta al Lago Ghedina, attualmente chiusa per frane, avanzando tra la vegetazione fitta e caotica; non ho ragguagli da alcuno che vi sia salito e pure noi ci abbiamo provato, senza esito. 
Era destino: l'assalto al Sas Perón - iniziato sul lato che scoscende sulla carrareccia (varie decine di metri di roccia verticale e anche strapiombante, sporca d'erba e ghiaia e non proprio ideale) - alla fine fallì e pensandoci, non dispiacque a nessuno. 
Passando di recente in zona, riflettevo sulla giornata e mi ha colpito l'entusiasmo col quale noi, dotati di poca tecnica e attrezzi scarsi, ma entusiasti come solo a sedici anni si poteva essere, avremmo preteso – in anticipo sull'apertura dei principali luoghi d'arrampicata d’Ampezzo - di crearci una falesia tutta nostra, a bassa quota e accessibile persino in bici. 
Dopo la batosta inflittaci dal Sas, non passò molto che potemmo comunque rinforzare la nostra passione, con risultati disomogenei per i singoli membri della compagnia che si stava formando (alcuni furono ammessi al Gruppo Scoiattoli e due poi anche a quello delle Guide). Il modo, diverso rispetto a quello di chi scala oggi, fu riferirsi a chi sapeva, nutrirsi di guide e manuali, lanciarsi subito su vie di montagna senza perdere tempo su massi infidi fioriti di rododendri. Se, come ci sembrò di capire, prima di noi nessuno si era spellato le dita sul Sas Perón, una ragione ci sarà stata di certo! 
Finisco constatando che non soltanto il «Sasso Sassóne» è rimasto una "falesia mancata", ma tempo fa (complice un progetto di riattivazione dell'aviosuperficie di Fiames, chiusa dopo la tragedia del 31 maggio 1976) avrebbe persino potuto correre un grosso rischio. Trovandosi proprio lungo il corridoio scelto per il decollo e l’atterraggio dei mezzi, alcuni illuminati progettisti pensavano di facilitare le manovre aeree ... proponendo di decapitare letteralmente  il romantico blocco, colpevole soltanto di trovarsi nel posto sbagliato e al momento sbagliato.

21 mag 2019

Spiz Gallina, wilderness ai piedi delle Dolomiti

In questi giorni di primavera, ma nel 1991, tre compagni accolsero la mia idea di provare una delle cime più "strane" del Bellunese: lo Spiz Gallina (1545 m), nel gruppo del Col Nudo-Cavallo e al margine delle Dolomiti.
Lo Spiz, boscoso, roccioso e non tanto semplice nonostante l'apparenza, prese il nome dalla valle sottostante; si slancia alto sul Piave di fronte a Longarone e fu definito dal primo salitore il "Cervino delle Dolomiti”.
Costui era il medico longaronese Giovanni Battista Protti, che giunse in vetta il 27 marzo 1898, con un compagno e due cacciatori locali ingaggiati come guide. 
Quasi un secolo più tardi, in una bella domenica di maggio partimmo da Provagna, borgata di Longarone oltre il fiume, e risalita l'aspra Val Masarei ci portammo sulla sella che separa lo Spiz dal massiccio retrostante. Qui c'era una baita di cacciatori, al tempo fatiscente e piena di zecche, che nel 2013 è stata riedificata in forma di rustica villetta e ricorda Franco Mezzavilla, caduto nella zona. 
Dalla sella la gita si trasformò in un’arrampicata "vegeto-minerale", con spezzoni di filo metallico assicurati alle piante come mancorrenti e un tratto di catena per superare un ostico salto. L'ultimo inciampo fu un ripido pendio di lope, dal quale spuntavano alcuni massi, utili per la direzione perché dipinti di rosso e come appigli, soprattutto per la discesa.
La morbida piattaforma di vetta, incerta tra la terra e il cielo e che evoca la nostra Bujèla de Padeon, stemperò la tensione offrendoci un ampio panorama sull’Oltrepiave e sulla Valbelluna, ma soprattutto estraniandoci col suo isolamento: lo Spiz, che è alto come il borgo di Pocol (300 metri più del centro di Cortina d'Ampezzo), domina la vallata da oltre un chilometro d’altezza! 
Lo Spiz Gallina  dalla valle omonima
(foto E.M., 20.4.2008)
Dopo essere scesi con attenzione alla sella, a valle incrociammo, più per fortuna che per giudizio, un sentiero alto sulla Val Gallina e con un ampio giro tornammo all'automobile, soddisfatti di una camminata che avevamo stimato durasse mezza giornata, ma in realtà ci occupò per quasi sette ore. 
Passando a Longarone, dopo tanto tempo da quella giornata lo sguardo cade ancora sulla piramide, evocando una salita che penso pochi conoscenti abbiano avuto l'occasione di compiere. In chiusura, ricordo con simpatia Luca Beltrame, l'amico di Udine caduto in montagna sei anni fa che nel gennaio 2004 salì lo Spiz in un'impegnativa invernale, affidandone la testimonianza a un pezzo sul semestrale "Le Alpi Venete".

10 mag 2019

La Gusèla (o Bujèla) de Padeon, angolo misterioso del Pomagagnon

Luglio '91: finalmente ho l'occasione di visitare un angolo d’Ampezzo che ignoravo, e nel quale vivrò una bella scoperta: la Gusèla (o Bujèla) de Padeon, nel sottogruppo del Pomagagnon. La cupola, rocciosa e cosparsa di mughi, raggiunge quota 2252 m e s'impone alla vista dalla SS51 d'Alemagna nei pressi della chiesa di Ospitale d'Ampezzo. Fino a poco più di trent'anni fa offriva due sole vie di accesso, tra cui la misconosciuta normale.
Il 28.7.1985 Paolo Bellodis - Scoiattolo e guida, mio coetaneo e amico - e Massimo Da Pozzo, nemmeno diciottenne, aprirono sul piastrone SO, alto duecento metri e lisciato da un’antica frana, la via "Gipsy" (V/VI), che in seguito sarà abbastanza ripetuta.
La Bujèla di Padeon, in un originale scorcio
dalla Val omonima (foto R. Vecellio)
Giusto ottantacinque anni prima, il 28.7.1900, in vetta erano giunti per la prima volta con intenti alpinistici gli austriaci von Glanvell e von Saar,  i quali seguirono la cengia che attornia la guglia con una spirale quasi regolare. il 30 luglio il terzo del gruppo, Karl Doménigg, salì da solo un alto camino che incrocia la via precedente; non ho capito da che parte sia, ma sono certo che se allora l'avessimo individuato, forse avremmo provato a salire anche quello.
Ignorata per decenni, anche se nel volume "Gruppo del Cristallo" (1996) Luca Visentini la cita tra le più suggestive della zona, la Gusèla (in ampezzano Bujèla, cioè ago), si pone tra l’escursionismo per esperti (EE) e il primo alpinismo (F). Non è una passeggiata, ma neppure una prova estrema: nel salirla ci si alterna tra vegetazione, detriti e roccette, e sotto la vetta c'è una solida paretina  quasi verticale, su cui una volta diedi una craniata che mi lasciò abbastanza stranito. Per toccare una sommità quasi piatta come un campo di calcio e ricoperta più di erba che di roccia, l’impegno non è di certo trascurabile.
Sono ritornato lassù in due occasioni: un sabato di novembre in cui la cengia era già in parte gelata, e una fresca domenica di settembre, in cui non sapevo che sarebbe stata l'ultima volta su quella cima solitaria.
Prima che gli sconvolgimenti meteorologici danneggino la via d'accesso e compromettano una gita molto gratificante, alla scorbutica Bujèla de Padeon i cultori di terreni aspri e di "wilderness" dovrebbero fare un pensiero. Da due anni in vetta c'è persino il libretto!

21 apr 2019

Sul Sassolungo di Cibiana: una via "che non esiste"

Il Sassolungo di Cibiana (2413 m, Gruppo del Bosconero) inquadra i boschi in destra orografica del Boite, dominando il paese e la valle del Rite con una parete di 500 m, che a sera si veste spesso dei colori dell'enrosadira.
Frequentata ab antiquo da cacciatori per le cenge e gli scaglioni ghiaiosi del versante O, la cima - classica meta dei cibianesi fin dai primi del XX secolo - ha richiamato l’interesse di molti alpinisti, tra cui compaiono per due volte quelli di Cortina.
Il 21.VI.1961 Marino Bianchi, guida di padre cibianese ma nato e vissuto sempre in Ampezzo, col cliente Erwin Urban tracciò una diretta di III-IV sulla parete N del Sasso; di essa non mancano i dati ma, almeno fino all'uscita del libro «Il Signore delle Montagne», dedicato da chi scrive al 40° della caduta della guida in montagna (Print House Cortina, 2009), pareva non fosse stata mai ripetuta.
Già quattordici anni prima di Bianchi, però, gli Scoiattoli Silvio Alverà e Lino Lacedelli erano saliti sul Sasso per lo spigolo NO, anch'esso di IV. Della via non abbiamo descrizioni, ed essa fu apparentemente dimenticata anche nel 1983, dal volume della «Guida dei Monti d'Italia» dedicato  da Angelini e Sommavilla al Pelmo e ai monti di Zoldo.
Il Sassolungo, versante N,
da Forcella Cibiana  (foto E.M., 21.6.2003)
La via Alverà-Lacedelli, citata per la prima volta in un opuscolo sull'attività degli Scoiattoli, opera di Carlo Gandini del 1968, rimane dunque pressoché ignota. Facilmente incrocia o ricalca qualche altra via sull'ampia parete, che salirono per primi Severino Casara e amici nel 1924, ma Boricio e Lino non possono più raccontare la giornata (era il 28.8.1947) trascorsa sulla N del Sassolungo, per cui alla fine si può affermare che la loro via "non esiste".
Problema soltanto bibliografico ed enciclopedico? Forse sì, ma comunque è un peccato non poter abbinare la memoria dei due alpinisti - almeno con uno schizzo su una foto - all'elegante cima simbolo di Cibiana, non proprio elementare e molto panoramica che abbiamo salito più volte con grande piacere.

27 mar 2019

Tra Pezié de Parù e il Lago de Federa: il monumento scomparso

Lungo il sentiero del Cai 434, che dall'agriturismo a Pezié de Parù, posto sulla Strada Provinciale 638 del Passo Giau, sale al pascolo di Formin e al Cason omonimo, per poi continuare verso il rifugio Croda da Lago, c'era una volta ... un piccolo monumento.
Un cippo di circa un metro d’altezza, in pietra rossa e di stile inequivocabilmente fascista, sulla sinistra orografica del sentiero, ai piedi de Ra Ciadénes, ricordava un italiano illustre, del quale noi stessi e tanti come noi sapevano poco e nulla.
Lombardo Radice con alcuni scolari 
durante una gita, anni Venti del '900
Qualche anno dopo, appresi che in quel punto preciso, il 16 agosto 1938, un malore aveva stroncato il cinquantanovenne professore Giuseppe Lombardo Radice, il pedagogista siciliano che nel 1923/1924 aveva tenuto - su incarico del ministro Giovanni Gentile - la direzione generale per l’istruzione elementare, collaborando alla riforma scolastica intitolata al ministro stesso. Passato alla cattedra di Pedagogia dell’Università di Roma, dopo l’omicidio Matteotti Lombardo Radice abbandonò gli incarichi ministeriali, in segno di opposizione al regime. Fondatore e direttore di periodici, autore di numerose opere di pedagogia, è ricordato come uno dei docenti “che dissero di no al Duce”. Appassionato di montagna, mentre si stava dirigendo in Svizzera si era fermato qualche giorno a Cortina, dove inaspettatamente trovò la morte. 
Non percorro da tempo il 434, oggi quasi sostituito dal più breve e meno ripido 437, che giunge a Formin dal ponte di Rucurto, e non ho più rivisto il monumento all'intellettuale, che mi era quasi sfuggito di mente. Un giorno Ermenegildo Rova, appassionato ricercatore e divulgatore degli “Amici del Museo" di Selva di Cadore, mi consegnò alcune immagini di un suo ritrovamento, chiedendomi se sapevo cosa fosse, se si trattasse magari di un reperto archeologico, se meritasse qualche ricerca.
Per quanto ormai poco leggibile, riconobbi a vista la lapide del 1938, spezzata e gettata tra l’erba sul ciglio del sentiero, e disillusi subito l’amico Gildo sul suo presunto "scoop" scientifico: il tempo e il disinteresse avevano semplicemente fatto sparire un cimelio di ottanta anni fa, che non dico andrebbe ripristinato, ma è giusto almeno ricordare, così come il personaggio che celebrava.

Sachsendank 1883 Nuvolau 2023. 140 anni di storia e memoria

Ernesto Majoni e Roberto Vecellio, Sachsendank 1883 Nuvolau 2023. 140 anni di storia e memoria , pp. 96 con foto b/n e a colori, Cai Cortina...