30 lug 2014

Villa Sant'Hubertus e la sua triste fine (400° post di ramecrodes!)

La villa di caccia denominata "Sant'Hubertus" a Cortina fu costruita alla fine dell'800 per iniziativa di due ricche donne, la contessa inglese Emily Howard Bury e l’americana Anna Powers Potts, 
La realizzazione dell'edificio o, per lo meno, i progetti e le richieste alla Regola Alta di Larieto, proprietaria del terreno, di acquistare un appezzamento sui prati detti “de Castèl”, erano già iniziate nel 1896. 
Le ricche signore volevano 3-4000 mq di terra, un'estensione impensabile per i regolieri, che diedero loro risposta negativa. Esse allora si rivolsero al Comune, che  da una decina d'anni amministrava i boschi e i pascoli della zona, e con una certa facilità ebbero il permesso di costruire la villa desiderata sul piccolo colle presso il Tornichè, a sinistra della stradina che sale a Ra Stua. 
Raro disegno della Villa Sant'Hubertus
(photo courtesy of bellunopress.it)
Ai regolieri d'Ampezzo non rimase altro che chiedere il compenso per il mancato esercizio del diritto di erbatico sui 5200 mq ceduti dal Comune alle nobili, pretendere il ripristino del luogo dal quale era stata estratta la ghiaia per la costruzione (che si trovava di fronte al colle, sul lato destro della strada) e il risarcimnto dei danni subiti dal pascolo. 
Nel 1898 le signore ottennero dal Comune anche il permesso di caccia in tutta la zona N della valle d'Ampezzo, che esercitarono fino al 1908. La loro casa, splendidamente arredata, venne abitata dalla fine del secolo, ma non ebbe fortuna. 
Allo scoppio della guerra venne a trovarsi proprio a cavallo dei due fronti, e i soldati di entrambe le linee la saccheggiarono e la cannoneggiarono senza ritegno, finché non ne rimasero che ruderi. 
Qualche anno fa i discendenti di Pietro Siorpaes "Piero de Santo" (1868-1953), guida alpina e fidato guardacaccia delle due signore, che aveva ereditato da loro il colle dove sorgeva la villa, hanno provveduto a far diradare la fitta boscaglia che soffocava gli ultimi ruderi. 
Così, intorno alla fu Villa "Sant'Hubertus" adesso si curiosa, con una brevissima passeggiata dal Tornichè ma con un certo dispiacere, pensando a come doveva essere quel luogo nell'epoca di maggior fulgore.

24 lug 2014

Pezovico, canale S: una via "nuova" del 1986

Grazie all'intermediazione di Saverio, ho avuto in mano un'interessante "pagina di diario". In essa Albert, nipote di Amedeo Angeli (Sindaco di Cortina nel 1956-65, a sua volta nipote di Amedeo Girardi, l'albergatore che nel 1910-11 salì - con le guide Angelo Dibona e Celestino de Zanna - il Campanile Rosà, la parete N della Cima N della Torre Grande e la Torre Quarta d'Averau), descriveva la prima (e anche l'unica?) salita del canale che divide le due cime del Pezovico, la quota 1933 a sinistra guardando da Fiames, e la quota 2014 a destra, entrambe ben visibili dall'ex aeroporto. Nel ringraziare l'autore della salita, meravigliatosi che la pagina di diario interessasse qualcuno a distanza di un trentennio, e l'amico Saverio, assiduo navigatore di questo blog, rilevo due cose. Albert, allora molto giovane, ebbe proprio del fegato ad affrontare in solitaria il canale meridionale del Pezovico, nel quale si notano sospesi alcuni grandi massi di tenuta piuttosto aleatoria; poi, la salita anticipò, e azzerò, una delle pazzie che forse avrebbe attratto anche chi scrive, passato più volte in quell'angolo selvaggio quant'altri mai che è il Pezovico. 
Il Pezovico, col canale salito da Albert nel 1986
 (autunno 2011, foto I.D.F.)
22.9.1986
Salita dell’ultimo canale esposto a S della dorsale del Pomagagnon. Visto il nome del monte alla sua sinistra (salendo), lo chiamo “Canale Pezovico”, e considero che porti alla Forcella Pezovico (Forcella Bassa, N.d.R.)
Salite le ghiaie, si affronta il canale direttamente (15 m., 3) o sulla destra. Risalitolo ancora per ghiaie, si giunge ad un masso incastrato che si supera sulla rosea parete di sinistra (4). N.B. Si può arrivare sopra il suddetto masso per cengette sulla destra, fin dall’inizio del canale (viaz di camosci, non so quanto agevole). Si risale nuovamente per ghiaie e si giunge ad altri enormi massi incastrati che si superano sulla parete di destra (10 m., 4+). Ancora per ghiaie, si arriva dove enormi macigni occludono il canale per più di 20 m. Si superano sulle rocce friabili di sinistra o, come ho fatto, seguendo una cengia che si diparte, guardando la parete di destra, dapprima verso destra poi a sinistra (3). Giunti poco sopra i massi la cengia si interrompe, ed è necessario un aereo salto in lunghezza (3 m), facilitato dal fatto che ci si trova sopra il “piano” di atterraggio (sbagliare può significare volare per i succitati 20 m). Si sale poi comodamente per 30 m fino alla Forcella Bassa. Da qui si scende per mughi a sinistra di un canale che divalla in Val Felizon (Granda, N.d.R.). Centralmente si rinvengono tracce di camosci. Si giunge così al ponte della ferrovia.
Note: impiegate 7 h, tempo eccessivo per i 600 m di dislivello dalla strada asfaltata. Al salto, perso lo zaino con la macchina fotografica, recuperato il giorno dopo, risalendo lungo il percorso di discesa (faticosissimo). Gita che non vale la fatica, comunque si passa. Sulla sella tracce di postazioni italiane e sentieri che si diramano verso destra: è quindi possibile raggiungere l’altra sella erbosa posta più ad E (Forcella Alta, N.d.R.).
Albert Brizio

23 lug 2014

Lido Capo Verde: escursionisti in spiaggia

Apprendo con dispiacere che "Lido Capo Verde", la spiaggia (unica nella valle d'Ampezzo) che sorge in riva al Boite un paio di chilometri a N di Fiames, servita da un ristoro in legno e da un piccolo parco giochi, quest'estate è chiusa. 
La sospensione si deve ad una questione amministrativa insorta con il Comune, in cui non mi addentro, lasciando l'incarico di dipanarla a chi di dovere. 
Osservo però che "Capo Verde", nato una ventina di anni fa sul luogo di una cava di inerti bonificata, grazie alla testarda inventiva di Alessandro Zardini Nòce, il noto “Zóco”, che acquisì con fatica lo spazio dal Demanio e con altrettanta fatica ne fece un angolo turisticamente appetibile, non merita una fine ingloriosa. 
Gestito a lungo da Clara e Alessandro, poi per un breve periodo da Marzia e Marco e oggi da Marcella e Benito, il Lido non serve all'alpinista, ma è al centro di escursioni e passeggiate a piedi e in Mtb, di vario impegno e lunghezza: oltre che in automobile, vi si arriva da Fiames per il Bosco dell'Impero o dal Camping Olimpia per Pian de ra Spines o dal Tornichè per la strada di Pian de Loa, e da qui si può proseguire per lo Sbarco di Fanes, il Ponte dei Cadoris, Antruiles e Ra Stua, il Castello di Podestagno, o addirittura salire sul Col Rosà. 
Peccato dover rinunciare all'unica stagione che il Lido ha, al relax garantito soprattutto nei giorni più caldi, quando il sole arroventa le ghiaie delle rive del Boite e consente di godere di una spiaggia di ciottoli a 1300 m d'altitudine, pasteggiando o sorseggiando una bibita finché i bimbi giocano tranquilli e sicuri all'ombra degli alberi. 
Capo Verde, settembre 2013
(foto I.D.F)

Peccato: in agosto era già previsto di portarci Elisabetta, che a 4 anni non ha ancora visto le nostre montagne; è il luogo ideale per avvicinarla alle Dolomiti, prima esplorando il  Bosco dell'Impero e poi magari raccogliendo i sassolini più levigati nelle anse in cui il giovane Boite scorre ancora pulito. 
Auspichiamo che gli impedimenti trovino un accomodamento soddisfacente, prima di tutto per i gestori che s'impegnano in questa struttura; poi per il sempre più breve turismo estivo di cui vive Cortina; ancora, per l'opportunità di avere centri d'attrazione nella natura e facilmente accessibili come questo; infine per chi non può o non vuol camminare, e qui trova il riposo dopo mezz'ora di passeggiata o una breve pedalata pianeggiante, condite da una bevanda fresca e dal sole, che spesso dardeggia implacabile ai piedi del Col Rosà. 
Sarà per l'anno prossimo?

18 lug 2014

Col Rosà, via normale "controcorrente"

Un oronimo ampezzano che pare facile da interpretare, ma presuppone invece un'indagine etimologica piuttosto “sottile”, è quello della cima che incontra lo sguardo di tutti coloro che, lungo la Strada 51 d'Alemagna, salgono da Cortina verso Dobbiaco: il Col Rosà. 
Denominato in tempi remoti "Crepo del Cetrosa" e "Monte Ola", due nomi oggi del tutto dimenticati, il Col Rosà potrebbe essere debitore del nome attuale, che non ha nulla a che fare con la rosa o l'omonimo colore, alla stessa radice di Monte Rosa, Plateau Rosà, Roisetta, Tète des Roèses e forse qualche altro, perlopiù localizzato nel territorio della Valle d'Aosta. 
Iside sul Col Rosà,
29 maggio 2005 (foto E.M.)
Nel patois locale, “Rosa” voleva semplicemente dire "ghiaccio". Si potrebbe allora arguire che l'oronimo sia tanto antico, da essere stato coniato in tempi in cui la zona era ancora occupata da neve e ghiaccio perenne? La suggestione è del tutto personale, magari anche aggredibile, ma piace pensarla così. 
Comunque, linguisticamente, è bello l'oronimo “Monte Ola”, che si ricollega senza dubbio al retrostante Valon de ra Ola, il canalone detritico (un tempo divertentissimo da scendere, oggi sempre più fastidioso), incuneato fra gli Orte de Tofana e le ultime balze del crestone che scende da Tofana de Inze. Nell'ampezzano di una volta, “óla” voleva dire "pentola", dunque la somiglianza sarebbe derivata da un catino tondeggiante o qualcosa del genere. 
Ma non lasciamoci prendere da disquisizioni accademiche: il Col Rosà è una delle prime montagne d'Ampezzo che chi scrive ha avuto modo di conoscere, giungendo sulla sommità per la prima volta dalla via ferrata “Ettore Bovero” appena inaugurata, 47 anni fa. 
Abbandonate le ferrate, in anni abbastanza vicini abbiamo rivalutato il sentiero 447, quello che fu fatto sistemare a fine '800 dalle nobili Anna Powers Potts e Emily Howard Bury, proprietarie della sottostante, Villa St. Hubertus per salire in vetta ... a cavallo.
In due ore e mezza di salita, questo ripido sentiero collega Pian de ra Spines alla cima; lo abbiamo salito “controcorrente”, visto che esso viene perlopiù seguito in discesa dai ferratisti, per una mezza dozzina di volte. L'ultima, per adesso, in una torrida e indimenticata giornata di fine maggio 2005.

14 lug 2014

Malga Valparola: ... bella scoperta!

Stranamente, non avevo mai fatto caso che esistesse una malga di nome Valparola; se l'avevo notata su qualche cartina, mai avrei pensato che fosse aperta al pubblico e così simpatica! 
La malga ha un curioso, triplice primato: vi si accede dall'Armentarola in Alta Badia, ma ricade per poco in Provincia di Belluno - Comune di Livinallongo del Col di Lana, ed è gestita da una famiglia della Val Pusteria.
Complice un nuovo libro di Oswald Stimpfl su 61 malghe del Sudtirolo, acquistato domenica scorsa in un'altra malga a noi cara, la San Silvestro tra Dobbiaco e S. Candido, abbiamo deciso di andare a curiosare a Malga Valparola: e ci è parsa veramente una bella scoperta.
Il luogo ha interesse per la storia, dato che nella valle che scende da Passo Valparola a In Pré de Vì, o Armentarola, sino al 17° secolo erano attivi i forni fusori del ferro, estratto nelle miniere del Fursil e condotto lassù per la "Strada de la Vena"; in tedesco, infatti, il toponimo "Valparola" è tradotto "Eisenofen", Forno per il ferro.
Un gruppo di fabbricati rustici sul bordo di un pascolo circondato dal bosco, ai piedi della dorsale rocciosa del Settsass (del quale non dimentico la faticosa salita alla cima, sotto il sole cocente, qualche anno fa); capre, cavalli, conigli, galline; un istruttivo panorama sulle cime del Gruppo Cunturines, che spuntano proprio di fronte; un sacco di gente, fra cui tanti bambini, poiché la malga è una meta facile e ideale per i piccoli; un gustoso piatto di salumi e formaggi; da ultimo, i nuvoloni e la solita pioggia che frena quest'inizio d'estate e ci ha scacciato anzitempo da lassù: questi gli elementi principali della visita a un luogo interessante per un'escursione, più vicino a casa nostra dei siti pusteresi che conosciamo, ma mai considerato nelle nostre ricerche di nuove mete.
I cavalli di Malga Valparola (foto E.M., 13/7/2014)
C'è un'allegra confusione a Malga Valparola; ci si rilassa sui vecchi tavoli all'aperto; si mangia bene; il locale è caratteristico; l'accesso non è lungo né faticoso. Merita proprio andare a darci un'occhiata! 
Se poi  la malga rimarrà ancora per un po' così com'è (a me ha ricordato subito il vecchio rifugio Fodara Vedla, tutto di legno e odoroso di omelettes e patate saltate...), costituirà un tuffo all'indietro per i nostalgici di una certa montagna!

12 lug 2014

Sull'Alpe di Lerosa, cinquant'anni fa

Verso la metà degli anni '60, mio padre ricevette l'incarico di "Marigo" della Regola Alta di Lareto; per questo, tra giugno e settembre, doveva salire spesso sull'Alpe di Lerosa, per verificare col pastore la situazione e gli eventuali problemi e necessità del pascolo e del bestiame.
Nell'estate 1965, e forse anche in quella successiva, salimmo dunque lassù quasi ogni domenica, rigorosamente a piedi dal curvone di Podestagno, dove riuscivamo a farci scaricare dal benevolo autista della linea Cortina-Dobbiaco: io avevo solo sette anni, ma ricordo una sensazione strana: che la valle d'Ampezzo fosse tutta chiusa lì, tra Ra Stua, Lerosa e Gotres!
Lassù alla baita che serviva d'appoggio al pascolo conobbi il pastore, un bel tipo poco più che quarantenne che si chiamava Francesco e veniva da Arina, un paesino del basso Bellunese che ancora oggi non conosco, e la sua famiglia.
Con quale stupore, e senza capire il perché, il pastore mi disse che non poteva mangiare zucchero, e per questo aveva sempre al seguito una scatoletta di saccarina! 
Aveva accanto la moglie, di cui ho dimenticato il nome ma ricordo bene che era “bianca e rossa come un pomo” e quando scendeva a Cortina ci portava i panetti di burro coi fiorellini, e quattro figli: Teofilo, Gianna, Antonio e Luciano. Vivevano tutti insieme nel ristretto ambiente del Cason per l'intera estate, sempre a contatto con il bestiame, il sole, il vento, la luna, la neve, la pioggia. Confesso che un pochino li invidiai davvero!
L'Alpe di Lerosa con la sua baita
(photo courtesy G. Mendicino, archivio LDB)
Mi sovviene di aver seguito un giorno Teofilo, che aveva forse undici anni ma era ormai un aiuto pastore navigato, lungo la Val di Gotres fin quasi alla Statale d'Alemagna, per recuperare una manzetta sfuggita dal pascolo; rivedo le bottiglie verdi col latte che i ragazzi usavano per catturare le vipere, le cui teste allora venivano compensate dal Comune con 500 lire l'una; ricordo la confidenza con cui Antonio e Luciano giocavano con le mucche, infilando le dita nelle loro narici umide...; mi pare di risentire ancora le chiacchiere dei grandi, riflesso di un'epoca più semplice, ormai del tutto tramontata.
Al termine dell'incarico, che durò qualche anno, la famiglia scese nella Pedemontana trevigiana per gestire un'attività commerciale, e laggiù uno dei due ragazzi più giovani morì in un incidente stradale. 
Chissà se gli altri familiari sono ancora tra noi, dove vivono, se si ricordano delle estati trascorse in Lerosa, abitando e lavorando sui “pascoli del dio Manitù”, come aveva battezzato l'Alpe il compianto amico giornalista Mario Caldara...

10 lug 2014

Pala del Asco e Pala de ra Fedes, due proposte molto diverse

Nel gruppo della Croda Rossa d'Ampezzo, ai celebrati pascoli di Lerosa fanno la guardia due elevazioni d'interesse puramente escursionistico, vicine e accomunate da oronimi  dedicati agli ovini. 
Una è la Pala del Asco (del montone, 2300 m), cupola erbosa apprezzata dagli sciatori ma meta anche di una facile escursione estiva fuori dalle tracce segnalate. 
Discesa dalla Pala del Asco verso i Tremonti
(foto E.M., estate 2003)
L'altra è la Pala de ra Fedes (delle pecore, 2733 m), primo dente della cresta NO della Croda Rossa, salita (forse a scopo militare) dall'austriaco Franz Nieberl nel 1915 e in seguito poco visitata. 
Nominata da Antonio Berti e da poche altre fonti, la Pala de ra Fedes richiede un accesso abbastanza delicato, al limite dell'alpinismo. Per la salita, ripida e su terreno instabile, occorre disinvoltura nel muoversi su un terreno friabile, con detriti e poco meno che vergine. In discesa, poi, sul versante opposto a quello di salita si incontra un erto colatoio con salti rocciosi e tracce di camosci, che va a finire in Val Montejela.
Mentre la Pala de ra Fedes è riservata a chi non ha bisogno di Internet, tabelle segnaletiche e bolli di vernice, quella del Asco può essere al centro di un più semplice “tour” naturalistico e panoramico in entrambe le stagioni, magari da completare salendo anche sul Castel de ra Valbònes (2380 m), caratteristico “guscio di tartaruga” incastonato nella vasta fiumana ghiaiosa del Graon de Inpó Castel (ghiaione dietro il Castello). 
Ricordo bene le mie due salite sulla Pala de ra Fedes e la scoperta dei due ometti che al tempo abbellivano la piccola sommità, deserta e riservata a “buongustai” di un certo modo di andare sui monti. Ma non dimentico i vagabondaggi sulla Pala del Asco, sia verde che innevata, i morbidi pendii di magro pascolo e, soprattutto, i tanti camosci che animavano le ghiaie circostanti. 
Peccato non sciare: mi piacerebbe confrontare la Pala del Asco estiva con quella invernale, sulla quale si spinge una sci-alpinistica che so essere frequentata e certamente remunerativa.

Sachsendank 1883 Nuvolau 2023. 140 anni di storia e memoria

Ernesto Majoni e Roberto Vecellio, Sachsendank 1883 Nuvolau 2023. 140 anni di storia e memoria , pp. 96 con foto b/n e a colori, Cai Cortina...