30 dic 2015

Montagne, luoghi e personaggi ampezzani

Non credo proprio che la domanda se la pongano in molti, ma una risposta ce l'ho. 
Quanti antroponimi, cioè nomi di luogo della nostra Cortina ricordano o si collegano in qualche maniera a persone locali o forestiere che hanno caratterizzato la storia della valle? 
Da un  approfondimento personale, risulta che gli antroponimi in questione sono un gran numero, e si riferiscono a strutture esistenti o scomparse, bizzarrie naturali, luoghi di caccia, fienagione e pastorizia impalliditi nel ricordo, infrastrutture turistiche e altro. Restano fuori, per il momento, i nomi - spesso abbastanza recenti - affidati a cime, guglie, torrioni, vie alpinistiche, che sono anch'essi decine e presuppongono una catalogazione a parte.
Quale Danel diede il nome a questo prato isolato
ai piedi del Sorapis? (foto E.M., 28/9/2013)
Molti luoghi si conoscono soltanto per iscritto e non per averli identificati sul terreno (anzi, per qualcuno la cosa è diventata difficile), ma questo potrebbe anche essere l’input per andare a cercare tra i boschi e sulle cime. 
Gli antroponimi recuperati ricordano Mèto, Santo, il Mardochèo, il Curto e Andol, l’albergatore Frasto, tale Bartoia, il Capon, le sorelle cuoche Mescores. 
E ancora le ostesse Pioaneles, Saeries e Sceches, un antico Conte e il Moisar che fuggiva gli uomini; un lontano Bartoldo è ricordato due volte, c’è l'inglese Ester e gli sfortunati Grisc e Macaron. 
E poi, prima che insorga il mal di testa, nei luoghi ampezzani troviamo memoria di Catina de Agnesc, del Jaibar e di un Pilato, di Mia del Gheto, Dea, un Mouta e un ‘Sacheo, di Lia e di un antenato (forse anche mio) Danel, ed infine ci sono le Baraches e il Mocio.
Ci resta ancora il ricordo di due morti senza nome, di un ‘Sandeaco, dell’intraprendente Menighel e del solitario Zorzi, di Stefin e del magro Rana, del Miceli, del Ris-cia e dei tre Tònes, di un Pelèle e del Jandarmo marebbano che lavorava a Cortina, di tutti i Chenope medioevali, del Vecia, del Touta... 
Sono tanti personaggi, reali o leggendari, dispersi nei meandri della storia e per la maggior parte di essi è improbabile riuscire a identificarli con certezza in carne ed ossa. 
E' certo però che tutti loro, valligiani e non, certamente persone semplici e senza velleità di protagonismo, per un motivo o per l’altro lasciato hanno una traccia concreta nella toponomastica d’Ampezzo, e la cosa merita un po' d'attenzione e d'interesse non solo da parte degli studiosi.

25 dic 2015

Walter, un amico del Cai Cortina (1932-2015)

Giovedì 18 dicembre è mancato a Kempten, in Germania, un amico: Walter Knischek, referente della Sektion Reichenberg del Oesterreichischer Alpenverein. Molti soci del Cai Cortina lo conoscevano dal 2001, quando il sodalizio della sua città natale - che, trovandosi nella regione dei Sudeti, fece parte fino al 1945 della Germania e fu poi annessa alla Cecoslovacchia col nome di Liberec - si gemellò con quello ampezzano, in nome dell'antica proprietà del Rifugio Croda da Lago, proprietà del Club Alpino Tedesco-Austriaco dal 1905 al primo dopoguerra.
Glorerhutte, 26/8/07: Walter con Federico Majoni,
all'epoca Presidente del Cai Cortina (foto E.M.)
Come consigliere e segretario del Cai Cortina, ho conosciuto bene Walter, con il quale ci siamo ritrovati in diverse occasioni: nel 2001, per il centenario del "nostro" Rifugio; nel 2002, in un fine settimana al loro rifugio, la Neue Reichenbergerhutte, dal quale raggiungemmo insieme la Rosenspitze; nel 2004 a Sankt Jakob in Defereggen, da cui ci portò sul Gross Leppleskofl; nel 2007 a Kals am Grossglockner, per salire al Glorerhutte; nel 2011 di nuovo nel grazioso paese di Sankt Jakob, dove i soci della Sektion Reichenberg si ritrovano annualmente in un soggiorno di una settimana (Bergsteigertreffen).
Voglio ricordare Walter Knischek come una cara persona, un vero appassionato della montagna, un amico ddella Sezione del Cai di Cortina, unita a quella di Reichenberg - che la Seconda Guerra Mondiale disperse in varie città e nazioni - dal rifugio sulle sponde del Lago di Fedèra, sul quale dal 1901 al 1918 sventolò il vessillo tirolese.
Spero che dalle montagne del cielo Walter ci guardi sempre, e gli porgo un caro "Berg Heil"!

20 dic 2015

L'invernale del Becco Muraglia

Un bel giorno di febbraio, in cui la neve latitava anche in quota e l'aria era ormai primaverile, con un paio di amici giungemmo sulla sommità del Bèco de ra Marògna (Becco Muraglia), il piccolo corno roccioso ai piedi della Gusela del Nuvolau che si intravede già salendo da Pocol al Passo Giau. 
Più che per l’alpinismo e l'escursionismo, il Bèco è importante per la storia di Cortina e di San Vito, giacché per quattro secoli fece da confine di stato, e oggi segna ancora il limite fra i pascoli sanvitesi di Giau e quelli delle Regole ampezzane. 
In antico il picco, quotato 2271 m, non aveva un toponimo specifico. Becco Muraglia, o Bèco de ra Marògna, è vecchio soltanto di un secolo, risale alla Prima Guerra Mondiale e deriva dal fatto che  la Marògna (muraglia) di Giau, costruita nel 1753, trova uno dei punti d’inizio proprio ai suoi piedi. 
Salendo verso il Bèco de ra Marògna 
(foto C. Bortot, settembre 2009) 

Non si sa chi sia salito per primo sull'esile punta, dove la guida Franz Dallago, oltre quarant'anni fa, riuscì a scoprire una breve via di difficoltà classiche, tornando un quarto di secolo dopo a ripeterla con una variante. 
L'itinerario "normale" per raggiungere la vetta si concentra in una paretina inclinata, alta forse cinquanta metri, di roccia mediocre e un po' fastidiosa per il ghiaino e con difficoltà valutabili di 1° grado superiore. L'ho percorsa tre-quattro volte, a coronamento dell'escursione in uno dei più suggestivi angoli della zona, il sottostante bosco del Foràme. 
La salita di febbraio fu un'invernale in piena regola: non saremo stati certamente i primi della storia, ma l’inverno asciutto e la voglia di godere aria frizzante ci spinsero a cercare una meta diversa e calcare quella cima. Vi siamo poi tornati ancora, per la comodità dell'accesso e le peculiarità storiche e panoramiche, ma soprattutto perché la vetta tranquilla e il bosco circostante costituiscono una bella via di fuga dal mondo sottostante. 
In questi giorni, finché persiste la stagione asciutta e avara di precipitazioni, l'invernale del Becco Muraglia forse non sarebbe tanto problematica!

17 dic 2015

Ho arrampicato con Angelo Dibona (Casara racconta la prima scalata del "Pilato")

Angelo Dibona Pilato, icona delle guide ampezzane, morì a settantasette anni nel 1956. In mezzo secolo di attività alpinistica frequentò l'intero arco alpino dalla Francia alla Slovenia e le scogliere inglesi, e aprì circa 70 vie nuove, sfiorando i limiti del possibile per l'epoca e affermandosi per coraggio e disinvoltura sia su roccia che su ghiaccio.
Forse a pochi è noto come il Pilato avrebbe conosciuto la montagna. Prendo il racconto, misto di realtà e leggenda, dagli scritti di Severino Casara, compagno di Dibona nell'ultima via nuova, aperta nel'estate 1944 sulla Punta Michele (Popena) con Walter Cavallini, Otto Menardi e Luis Trenker.
Come tanti montanari, in gioventù Dibona badava anch'egli al bestiame. Era circa il 1891: con suo cugino Damiano, lui pure divenuto una buona guida, faceva il "vida" (garzone pastore) sull'alpe di Fosses, da secoli pascolo di pecore. 
Un giorno, in un momento di libertà, i ragazzi si diressero verso la grotta che spicca sul risalto che domina il lago e il Cason de Fosses, il Castel de Fosses. La grotta veniva chiamata “el busc de l oro” e si mormorava che ospitasse un tesoro, che però nessuno aveva mai visto.
Il Castel de Fosses con il Cason e il "busc de l oro" : 
sullo sfondo la Piccola Croda Rossa ( raccolta E. Maioni) 
Angelo volle andare a curiosare; salutò Damiano e salì per le rocce, giungendo ben presto alla grotta. Nell'antro non trovò tesori, ma solo ghiaia, acqua colante e guano: deluso, provò a scendere, trovandosi subito in difficoltà.
Il cugino, che seguiva la salita dalla base, gli urlò di provare a destra. Angelo, tremante, traversò su una cengetta marcia, trovando solo pochi appigli per le mani, e dopo interminabili minuti riuscì a posare un piede su una minuscola lista erbosa, da cui pian piano giunse alle ghiaie. Era la sua prima scalata: aveva dodici anni.
Qualche anno più tardi, dopo aver lavorato da un orefice, lasciò il chiuso della bottega per scalare le montagne. Richiamato dall'esercito austriaco, stette tre anni in divisa; al rientro fu accolto come portatore a Pratopiazza, e si spinse sulle cime ampezzane e pusteresi sotto la guida dell'esperto Giovanni Cesare Siorpaes, "Jan de Santo". 
Dopo un corso a Villach, a ventott'anni fu promosso guida e iniziò ad aprire nuove vie, vincendo fin dall'inizio alte difficoltà. Passando qualche volta a Fosses, avrà sicuramente lanciato uno sguardo al Castel, dove aveva iniziato una lunga e luminosa carriera, che lo portò a conoscere tutte le cime d'Europa. 
Il 21 aprile 2016 saranno sessant'anni dalla sua morte: si potrebbe rivalutare il ricordo del simbolo delle guide ampezzane, magari con una piccola targa proprio sulle rocce del Castel de Fosses.

14 dic 2015

Le rocce selvagge della Bujèla de Padeon

Venticinque anni fa, una montagna ampezzana su cui salivo per la prima volta dopo aver spulciato a fondo la guida Berti alla ricerca di nuove idee, mi diede emozioni più intense del solito: la Bujèla (cioè l'ago) de Padeon, sulla dorsale del Pomagagnon. 
La Bujèla un torrione singolare, isolato e poco appariscente, che s'impone allo sguardo guardando verso la Val Padeon dalla Statale d'Alemagna nei pressi di Ospitale. Fino al 28 luglio 1985 vantava soltanto una via normale pressoché sconosciuta e disertata, e fra gli scalatori godeva di una considerazione nulla.
Quella domenica, gli Scoiattoli Paolo Bellodis e Massimo Da Pozzo inventarono - sulla placca grigio-gialla e compatta che guarda i Prade del Pomagagnon, resto di un'antica frana - la via "Gipsy": 180 metri di stampo moderno con difficoltà di quinto e sesto, in seguito frequentata spesso. Così la cima guadagnò, se non la notorietà, qualche citazione in più sulla stampa specializzata.
La Bujèla  in lontananza, salendo sulla Punta Erbing 
(foto E.M., agosto 2009) 
Sulla Bujèla erano saliti per primi con intenzioni alpinistiche i carinziani Viktor Wolf von Glanvell e Karl Günther von Saar, che ottantacinque anni prima degli Scoiattoli, il 28 luglio 1900, seguirono la cengia a spirale che avvolge il torrione con regolarità. Due giorni dopo, il loro compagno Karl Doménigg salì invece per un camino alto e liscio, che incrocia la via Glanvell con qualche difficoltà in più (per la verità, durante un'esplorazione, non capimmo dove fosse...). 
La via originaria, poco battuta anche se Visentini, nel suo libro "Gruppo del Cristallo" (1996), lo giudicava una delle normali più godibili della dorsale del Pomagagnon, presenta difficoltà di 1° grado superiore. Non è una semplice gita, ma nemmeno una scalata: la corda - salvo che nel tratto iniziale, se qualcuno non si sentisse sicuro - serve poco. 
Salendo ci si destreggia fra alberi, ghiaie, mughi, roccette, e poco sotto la vetta su una solida e ripida paretina. Fatti i conti, per guadagnare la sommità, quasi piatta e molto comoda perché erbosa, ci vuole un po' di impegno. 
Dopo la salita del 1991, tornai sulla Bujèla nella frizzante mattina del 14 novembre 1992, scoprendo la via in parte gelata e sgradevole, e poi ancora una terza volta nel settembre 1995. Questa concluse la serie delle mie visite ad una vetta così singolare. 
La Bujèla de Padeon, che oggi possiede anche un piccolo libro di vetta, è un angolo di mondo al quale, prima che cedimenti e frane invadano la cengia e rovinino un accesso ancora avventuroso, seppure non troppo difficile, agli amanti delle rocce selvagge consiglio di dare un'occhiata.

11 dic 2015

Salire sul Cristallo in pieno inverno

Un fatto della storia dolomitica che merita di essere ricordato è l'ascensione invernale del Cristallo, prima cima della valle d'Ampezzo vinta d'inverno, in risposta alle importanti salite realizzate nello stesso periodo appena di là dal confine grazie alle forti guide di San Vito: Croda Marcora (novembre 1881), Antelao e Pelmo (gennaio-febbraio 1882).
Tentato dall'anglo-tedesco Moritz Holzmann col pioniere Santo Siorpaes, ma fallito per la troppa neve, il Cristallo d'inverno cedette a due valligiani: Bortolo Alverà de Pol e la guida Pietro Dimai Deo. 
Pietro Dimai, Giovanni Siorpaes e Antonio Dimai
a Ospitale, 1895 (raccolta E.M.)
Bortolo, apparso e scomparso dalle cronache poiché non era un alpinista, ma l’I.R. Maestro Stradale (il cantoniere, responsabile della strada che sale a Misurina), e fu poi Presidente e Direttore della prima e unica banca con sede a Cortina, la Cassa di Depositi e Prestiti per Ampezzo costituita nel 1894, salì sul Cristallo con "Piero de Jènzio" il 22 novembre (secondo alcuni il 22 febbraio) 1882. 
La guida aveva ventisette anni ed era patentata già da otto; il suo compaesano di anni ne aveva trentatré, e non è noto perché si fosse unito alla guida per un'impresa del genere. 
Di certo la cordata incontrò un grosso ostacolo nelle temperature, dato che la via normale del Cristallo si svolge fra i 2800 e i 3200 m di quota, e oltre un secolo fa gli inverni erano veramente inverni. 
D'estate, la cima è alla portata di alpinisti con piede fermo e avvezzi all'esposizione, ma si sa che d'inverno le pareti inclinate sono le peggiori, prova ne sia che la salita con la neve non ha avuto ripetizioni a iosa: una recente è quella di Mario Dibona Moro, Scoiattolo e guida che - alla fine degli anni '90 - in sei giorni traversò da solo in senso orario tutte le cime che attorniano la conca d'Ampezzo. 
Non si sa come Piero e Bortolo videro dalla vetta la conca di Cortina, i villaggi, i boschi, i campi e i prati ammantati di bianco e immersi nel silenzio: un quadro degno di un presepe, che purtroppo nessuno raccontò per iscritto e oggi possiamo solo immaginare. 
Fu l'inizio dell'alpinismo invernale nella valle, replicato nove anni dopo dallo stesso Piero col giovane cugino Antonio e l'intrepida olandese Jeanine Immink sulla più impegnativa, anche se meno elevata, vetta della Croda da Lago.

9 dic 2015

Con Sandro sulla cima, tra storia e fantasia

... Mi sarebbe piaciuto essere accanto a lui in quel giorno d’estate del 1876, quando Alessandro Lacedelli (conosciuto come Sandro da Melères), quarantenne orologiaio, armaiolo, cacciatore e guida che aveva già scalato tante cime e molte altre ne avrebbe salito fino a fine secolo, toccò da solo il culmine della Punta Nera, tra le crode del Sorapis. 
Sarebbe stato bello partire insieme da Melères, risalire le boscose pendici del Mondeciaşadió (odierno Monte Faloria), scavalcare le nude Crepedeles (Tondi di Faloria) e sostare sull'erba a Forcella Faloria per uno spuntino e due tirate di pipa, non ancora certi sul da farsi. 
Mi sarebbe piaciuto, in quel momento, scorgere col cannocchiale un branco di camosci che risaliva correndo all’impazzata il vallone detritico che dalla base della Punta Nera cala ripido verso la Val Orita, e decidere di braccarlo. 
Alessandro aveva un fucile a tracolla: andava sui monti non soltanto per fare dell'alpinismo, e un buon pezzo di carne gli avrebbe fatto comodo. A casa aveva famiglia, e qualche braciola avrebbe potuto ampliare la magra dieta contadina, basata sui prodotti dei campi, dei pascoli e del bosco. 
Mi sarebbe piaciuto accodarmi a lui e risalire l'instabile colata di ghiaie e grossi  massi fino a quel piccolo intaglio sulla cresta, che decenni dopo sarebbe stato battezzato Sella di Punta Nera, ma allora era noto soltanto ai cacciatori. 
Da lì, appostandoci dietro gli ultimi blocchi, mirare ad un bel maschio che saltava e poi, seguendo le tracce di sangue sulle rocce, affrontare l'erta cresta della Punta. Per essa, di balzo in balzo lungo cenge e canali friabili, avremmo toccato la stretta sommità, godendo forse per primi un'incomparabile vista sulla tirolese valle d’Ampezzo e sull'italiana vallata del Cadore. 
La Punta Nera. dai pressi di Forcella Faloria
(foto E.M., 26 luglio 2012)
La nostra sarebbe stata la prima salita alpinistica della Punta Nera, una cima che rimase lunga e faticosa da raggiungere fino al 1939, quando l'ardita teleferica “Principe di Piemonte”, che issava gerarchi e signore con i tacchi al moderno rifugio intitolato a Edda Ciano Mussolini, ridusse di molto l’avvicinamento alla Sella, limitandolo a un paio d'ore circa, o poco di più dal Passo Tre Croci. 
Anche se oggi la Punta Nera dal Rifugio Faloria è una gita relativamente comoda, sulla cima solitaria non arrivano comunque in molti (nel libro di vetta, in un'intera estate, ho contato solo 22 firme). 
Eppure, quanto valore ha per la storia d'Ampezzo e quanti pregi per l'alpinista, la salita di Sandro da Melères dell'estate 1876!

5 dic 2015

Mesto ritorno da un Campanile

La passione per la montagna mi ha offerto - in numerose giornate di discreta levatura, appassionanti e gratificanti - di scoprire tante cime e vie, sognarne altre, fare progetti, conseguire soddisfazioni e qualche sconfitta. 
Anche queste fanno comunque parte dell’esperienza dell'alpinista e si ricordano con piacere e magari un velo di nostalgia, salvo che non siano state dolorose. 
Solo per parlare di vie alpinistiche, rientrammo con le pive nel sacco dalla Mazzorana sulla parete della Cima del Laudo franata poco tempo fa (II grado, roccia paurosa), dalla Von Glanvell su una delle Cime Campestrin (I-II grado, stesso problema e forse un errore di itinerario), dalla Von Glanvell sulla prima Cima Campale (I-II grado, scariche incessanti di pietre), e poi dalle più difficili Lacedelli sulla Torre Grande d’Averau, Dibona sulla Torre Grande di Falzarego, Dimai sul Campanile Dimai del Pomagagnon... 
Specialmente quest’ultima prometteva di essere una grande salita e il ritiro mi dispiacque. Eravamo giovani e abbastanza ben allenati; il ripiegamento non si dovette, comunque, a incapacità della cordata, ma soltanto a un temporale, che ci prese a metà via e ci costrinse a ripiegare in fretta. 
Avevamo già salito varie lunghezze (le 
Punta Fiames, Punta della Croce e Campanile Dimai,
dai prati sotto Mietres, (foto E.M., novembre 2003)
due più difficili erano ancora sopra di noi), quando si scatenò il diluvio. A scanso di guai, mediante fortunate cenge baranciose riuscimmo a traversare in quota verso la Punta della Croce e raggiungere il grande e impraticabile canale che separa quest'ultima dalla Punta Fiames, sulla verticale dello spigolo Jori. 
Sul tratto di cengia che attraversa la Punta della Croce, proprio ai piedi della via Pott, c'era una lattina vuota di Coca Cola, abbandonata da poco. Quindi, qualcuno passava anche in quei luoghi dimenticati! Giunti sul bordo del canalone, mentre studiavamo una discesa che non pareva scontata, intravedemmo due chiodi rugginosi. 
Con due calate mettemmo quindi felicemente piede nel canalone, poco sopra il sentiero del Calvario. Lungo l'impluvio c’era di tutto, cordini putridi, chiodi spezzati, moschettoni e persino i frantumi di un casco: roba sfuggita a salitori dello spigolo, che sperammo se la fossero ugualmente cavata (ossa, grazie a Dio, non ce n'erano)... 
Il ritorno da quel Campanile fu particolarmente mesto, ma eravamo comunque soddisfatti: tempo dopo, l'amico risalì e completò la via sudando le proverbiali sette camicie, perché - grazie all'intuito e alla bravura del vecchio Tone Dimai, che l'aveva salita nell'agosto del 1905 con Tino Verzi e le indomabili sorelle ungheresi Eotvos - essa si era rivelata assai meno semplice di quello che avevamo immaginato.

1 dic 2015

Cesta, Zesta o La Cedel: tre nomi per una cima poco nota

Corposa, poco slanciata elevazione della cosiddetta Diramazione ampezzana del gruppo del Sorapis, inferiore per quota solo alla vicina e più nota Punta Nera, la Cesta, o Zesta (in passato denominata anche La Cedel), non rientra fra le cime dolomitiche più battute: Paolo Salvini riferiva che in tutta la calda estate 2003 fu salita appena sette volte. Eppure, già nel 1898 la Zesta comparve all'ottavo posto nella lista delle gite proposte dalle guide ampezzane; per salirla si prevedevano dodici ore di cammino, compresa la traversata alla  Pfalzgauhutte al Lago del Sorapis, al prezzo di dodici Kr.
La Zesta dal Col Siro, luglio 2012 (foto E.M.)
Nonostante il limitato appeal della cima, che domina il pascolo di Tardeiba e il sentiero da Forcella Faloria al Lago del Sorapis con una larga parete "a canne d'organo", e pur se la roccia è scadente, la Zesta potrebbe forse godere di un minimo di attenzione in più, per alcuni motivi: una via normale non banale (in un tratto, gli incerti faranno bene ad assicurarsi ad una corda), ma divertente e di soddisfazione; un pregevole colpo d'occhio, soprattutto verso la Punta di Sorapis; un senso della Montagna molto elevato.
Raggiunta forse da topografi, in epoca ignota, da Forcella del Ciadin per la cresta nord, nell'agosto 1929 fu scalata da Berti, Casara e compagni per il versante sud-est - roccioso e detritico, alpinisticamente poco attraente - che declina verso il Lago del Sorapis e, richiamando un grande cesto capovolto, ha conferito il nome alla cima.
La storia della Zesta, che personalmente ho salito quattro volte, traversando due volte da nord a sud-est, è quantomai striminzita, ma non priva di qualche sussulto. Dopo una via dell'austriaco Hubert Peterka in solitaria (luglio 1930), il 7 febbraio 1942 tre triestini appassionati di alpinismo esplorativo (Giorgio Brunner, Massimina Cernuschi e Mauro Botteri) effettuarono la prima invernale della vetta, raccontata da Brunner nel suo libro, oggi raro, "Un uomo va sui monti" (1957). 
Nella guida Berti la notizia dell'invernale è inesatta, così come lo schizzo della Zesta, sul quale la via normale è stata scambiata con la via di Berti.
Nel 1994 gli amici Mara e Ivano salirono sulla Zesta e vi collocarono un contenitore con il primo libro di vetta; il libro è certamente utile, ma le sue pagine faranno sicuramente un po' di fatica a riempirsi nel corso degli anni.
Salito da solo a fine luglio del 1995, scoprii con piacere il nuovo libro ed ebbi un'ulteriore notizia: il 5 gennaio di quell'anno, la neo-guida Ario Sciolari aveva realizzato sulla Zesta la probabile prima invernale solitaria.
Di certo l'episodio non fece scalpore né ebbe spazio sui media, ma ha aggiunto comunque un capitolo alle scarne vicende di quella cima abbandonata.

27 nov 2015

Topazia, Fosco e i Cadini: ricordi di un lungo week end

Il 23 novembre si è spenta a Roma, a 102 anni, Topazia Alliata. Prima moglie dell'alpinista, scrittore, fotografo, esperto del Giappone Fosco Maraini (1912-2004) e madre della scrittrice Dacia, la Alliata - di nobili origini siciliane - può essere ricordata per diverse ragioni. Pittrice e gallerista, ha dedicato all'arte un tratto fondamentale della lunga vita. Ma è stata anche altro: una donna anticonformista, una scrittrice, un'intellettuale cosmopolita, un personaggio ricercato nel mondo della cultura, un'imprenditrice del settore vinicolo.

Come non poteva non venire in mente a chi, fin dall'adolescenza, consulta meticolosamente le guide dei Monti d'Italia del Cai-Tci, al fine di trarne spunti per gite e salite o anche solo per curiosità, che Topazia Alliata fu anche alpinista?
Topazia e Fosco (photo courtesy by reporternuovo.it)

Nella guida delle Dolomiti Orientali di Antonio Berti (1973), infatti, il suo nome ricorre per due volte. il 7 settembre 1935, durante un lungo week end sui Cadini di Misurina (in cui forse fecero base in tenda, poiché il Rifugio Fonda Savio era ancora lontano dall'essere ideato), Topazia salì col fidanzato, forse già marito Fosco - scalatore cresciuto alla scuola di Comici e Piaz - il Castello Incantato per il camino tra la II e la III torre, battezzando così la cima che guarda il Passo dei Tocci. 
Il giorno prima Fosco aveva salito con Hans Kraus (un americano trentenne che arrampicò con Soldà, Quinz e col nostro Marino Bianchi e fu il medico personale di J.F. Kennedy) il torrione dei Tocci, all'estremità nord del Castello Incantato. Nel 1964 il torrione fu dedicato ad Alvise Canal, ragazzo veneziano caduto dalle sue rocce; una nostra avventura di tanto tempo fa sul Torrione Alvise, la racconterò magari la prossima volta ... 
Il 9 settembre, la coppia Maraini-Alliata superò lo spigolo nord della Cima Cadin di San Lucano, la più alta dei Cadini, tracciando un itinerario di 4° e 5° che dovette avere i suoi estimatori, se poco dopo lo ripeté, correggendolo con due varianti, nientemeno che il grande Emilio Comici. 
Nel 1936, Topazia ebbe la prima figlia Dacia, cui seguirono altre due bimbe; si trasferì in Giappone col marito, negli anni '40 passò alcune traversie politiche e alla fine rientrò in Italia, continuando la sua vita fino a oltrepassare il secolo. Chissà se dimenticò mai quel lungo fine settimana di ottant'anni orsono sui Cadini di Misurina, che la fece apparire nel "Libro d'oro delle Dolomiti"?

23 nov 2015

In montagna con quattro cari amici

Cinque anni fa, proprio in questi giorni, se ne andava immaturamente l'amico Mario Crespan, alpinista, artista e scrittore di talento. Voglio ricordare il mesto anniversario in poche righe, rievocando alcuni flash di una delle giornate che trascorsi in montagna con lui. 
Sabato 26 luglio 2008: Adriano Cason, Mirco Gasparetto, Mario e la moglie Paola vennero su appositamente da Treviso per salire in compagnia la via normale della Punta Nera, la quota più elevata del ramo "ampezzano" del Sorapis che domina parte della sky line guardando da Cortina verso sud, e alla quale ho dedicato varie volte spazio anche in questo blog.
L'obiettivo della nostra gita era la sostituzione del libro di vetta: una proposta di Mario che avevo accolto con molto piacere, poiché presupponeva un'ulteriore visita a una delle vette che ritengo più meritevoli e meno “consumate” d'Ampezzo.
Il nuovo libro ha preso egregiamente il posto del precedente, portato lassù - previo mio suggerimento - il 9 settembre 2000 dall'allora ottantenne amico Giulio ma, dopo sole otto stagioni di onorato servizio, rovinato dalle intemperie, o dalla distrazione o menefreghismo di qualche firmatario, che dimenticò di riporlo nell'apposito contenitore impermeabile.
Mario, in piedi, con Ernesto sulla Punta Nera
(photo by M. Gasparetto)
La nostra ascensione della Punta Nera (che, secondo la storia alpinistica, è stata la prima tra le cime "minori" d'Ampezzo a essere conquistata, ad opera del pioniere Alessandro Lacedelli "Sandro da Melères", giunto lassù nel 1876 ad inseguire un camoscio ferito), fu purtroppo insidiata dal maltempo.
Durante la salita il cielo si era mantenuto abbastanza pulito ma al ritorno, mentre ci calavamo lungo la delicata paretina con cui inizia la via normale, si scatenò uno dei tanti rovesci di quella strana estate. Dopo una provvidenziale sosta nel grande “landro” che si apre lungo l'aspro sentiero proveniente da Forcella Faloria, riuscimmo comunque a raggiungere la funivia senza bagnarci a dismisura e a tranquillizzare Iside che, osservando da casa la Punta, ci attendeva un po' preoccupata. 
Scalare con Mario e compagni la Punta Nera, sulla quale quel giorno misi piede per la settima volta in un ventennio, mi diede una bella emozione, accresciuta dal piacere di aver condiviso una giornata fra le rocce con cari amici, che in gran parte non vi erano mai saliti. 
Ed è attraverso i fotogrammi di quella giornata che desidero ricordare Mario, con il quale mi ritrovai ancora solo per salire il Corno d'Angolo, poco più di un mese dopo la Punta Nera: chissà quante altre gite e chiacchierate di alpinismo avremmo potuto fare! 

16 nov 2015

Note di storia ampezzana: il Torrione TV in Tofana

Alla base della Tofana Prima, tra gli antichi alpeggi di Rozes e Sotecordes, oggi deserti, a circa 2000 m di altitudine si cela una guglia dolomitica, visibile e raggiungibile in tempo abbastanza breve dalla SR48 delle Dolomiti che sale verso il Falzarego. Il suo valore alpinistico è pressoché nullo, ma anch'esso possiede una sua via di salita. 
L’itinerario fu realizzato il 21 agosto 1958 da alcuni Scoiattoli di Cortina, dei quali non si conoscono i nomi, soltanto a scopo di ripresa televisiva. 
Il Cason de Sotecordes
(foto www. regole.it)
In quel momento quasi pionieristico della televisione, infatti, era giunta a Cortina una troupe della Rai, guidata dal regista trentino Gian Maria Tabarelli (1926-2004). Essa salì a Rozes e Sotecordes con il compito di seguire in diretta la salita del torrione, al quale naturalmente, nell’occasione fu dato il nome di “Torrione TV”. 
Dell'ascensione, citata sotto l'anno 1958 da Gandini e Alverà nel volume che rivisitava “40 anni di prime salite e ripetizioni degli Scoiattoli di Cortina” (edito dalla Cassa Rurale ed Artigiana nel 1979 e che, 36 anni dopo, si potrebbe utilmente aggiornare e rimettere a disposizione di cultori e curiosi), purtroppo non vi sono altri dati. 
Sarebbe interessante almeno conoscere i nomi dei membri della, o delle, cordate che salirono la via, qualche dettaglio di questa (secondo Gandini e Alverà presentò difficoltà di sesto grado, e non comparve nell'edizione 1971 della guida "Dolomiti Orientali Volume I-Parte 1^" di Antonio Berti), se sia stata ripetuta, se il Torrione, che non raggiunge molte decine di metri d’altezza, potrebbe avere rilievo anche oggi, magari come falesia in quota. 
Non ultimo: sarebbe opportuno che qualcuno che conosce i canali giusti, riuscisse a ripescare dagli archivi della Rai e mostrare di nuovo, almeno in Ampezzo, il documentario che cinquantasette anni fa, ai primordi della TV di Stato, diffuse in diretta in tutto lo stivale i volti e la bravura di alcuni Scoiattoli e la bellezza dei monti di Cortina.

12 nov 2015

Forcella Colfreddo, valico senza (molto) valore

Nonostante salti subito all’occhio guardandola dalla SS51 di Alemagna, tra la sella di Cimabanche e Carbonin, la Forcella Colfreddo (Colfiédo), aperta fra il corpo principale della Croda Rossa d’Ampezzo e il Colfiédo, la maggiore elevazione della dorsale di Ra Sciares, è sicuramente tra i recessi meno usurati delle Dolomiti d'Ampezzo. 
Parlo dal punto di vista estivo, poiché d’inverno la Forcella (teatro della disgrazia accaduta trent'anni fa, a San Silvestro del 1985, che costò la vita ai compaesani Orazio Apollonio e Giorgio Piccoliori) è nota da molto tempo agli scialpinisti per la discesa che offre, ma solo in condizioni di neve sicure. 
L'alto valico è uno dei pochi nelle Dolomiti non ancora, e spero mai, raggiunto da sentieri, tanto meno segnati e tabellati. Vi si accede da Forcella Lerosa, addentrandosi nel grande circo delle Valbònes, aggirando a destra il favoloso Castel de ra Valbònes e risalendo l'imponente ghiaione per settecento metri di dislivello; oppure - soluzione più logica in discesa - si può salire dal Passo Cimabanche, rimontando il lungo vallone che scende da questo versante, in basso sconvolto da storiche frane. 
Ad un certo momento ci si deve spostare sul versante destro orografico, su deboli tracce di cacciatori, per schivare un franamento più vasto degli altri, visibile già da lontano; da ultimo si rimonta il ripido canale ghiaioso che lambisce le rocce della rossa parete salita per la prima volta da Ignazio Dibona e Piero Apollonio nel 1934. Da questo lato i metri di dislivello salgono a milleduecento, e sicuramente piuttosto faticosi. 
Forcella Colfreddo dalla Valfonda,
nel tardo autunno 2011 (foto E.M.)
Come valico, direi che Forcella Colfreddo non ha (molto) valore; per collegare l'alpeggio di Ra Stua a Gotres e Cimabanche c'è la sottostante, agevole Forcella Lerosa, frequentata sicuramente fin dal Medioevo e anche prima. Potrebbe averlo però come gita a sé, trovandosi in un ambiente grandioso, proprio alle pendici della Croda Rossa d’Ampezzo, ma la scarsezza delle tracce e la pendenza dei ghiaioni dissuadono gli escursionisti. 
Lassù, a pochi metri dallo scollinamento, due cose attendono il visitatore curioso: la cengia della parete SE della Croda Rossa (traversata per la prima volta partendo dalla Quaira del Pin da M. Dall'Oglio e P. Consiglio nel 1951), che presenta qualche passo di arrampicata, e la cresta-spigolo S, percorsa da una misteriosa, vecchia via di F. Terschak e H. Kees, dove l'amico Dall'Oglio diceva che dal 1913 nessuno aveva più osato avventurarsi...

6 nov 2015

Eugenio e Simone Ghedina, fratelli e guide alpine

Nel nono decennio dell'800, due fratelli ampezzani si avviarono quasi insieme alla professione di guida alpina. Si chiamavano Eugenio e Simone Ghedina, e appartenevano al ceppo Fraio, non più presente a Cortina. Eugenio, il più grande, nacque nel 1857: poté svolgere il mestiere di guida per pochissimo tempo, perché soccombette ad una malattia ad appena ventotto anni. 
Simone invece, nato nel 1859 e soprannominato Scimonuco, visse fino al 1931. Guardaboschi, coltivò anche una ricercata passione per il giardinaggio. Fu autorizzato a guidare clienti dal 1882 e iscritto nel ruolo delle guide alpine d'Ampezzo per venti anni, cessando la professione all'alba del nuovo secolo. Nella Tariffa per le guide di montagna del Distretto Giudiziario di Ampezzo del 1898, però, fra i nomi delle guide autorizzate il suo non c'è.
Come al fratello, neppure a Simone la storia attribuisce imprese di livello; probabilmente si dedicò a incarichi di portatore e "guida per montagne basse" e si prestò raramente a maggiori impegni: comunque il 5 giugno 1883, con la guida Angelo Menardi Malto, l'aspirante Luigi Piccolruaz Nichelo e Giuseppe Girardi, secondo le fonti fu il terzo salitore della Torre Grande delle 5 Torri d'Averau.
2/11/1901. Le guide alpine di Cortina:
Simone Ghedina è il 3° al tavolo, da sinistra
Scimonuco passò alla storia come un uomo gioviale, scanzonato, sempre propenso alla battuta. Si dice che, trovandosi di fronte alle liscie e scivolose rocce del Cristallo (sul quale gli alpinisti salivano fin dal 1865 e, a fine '800, era una delle mete di Cortina più ambite soprattutto dagli stranieri), commentò sornione che, per scalarle, sarebbe stato utile avere i peli anche sul palmo delle mani. Una delle elevazioni di cresta della Croda da Lago, tra la cima principale e la Cima Bassa, porta il nome di Punta Fraio. Non risultando che la guglia abbia alcuna via di accesso, è da pensare che non sia stata mai salita ed è oscuro il motivo per cui le fu dato proprio quel nome; piace pensare che sia stato fatto in omaggio a Eugenio o a Simone Ghedina, o anche a tutti e due.

2 nov 2015

La pace di Posporcora

Nel tardo pomeriggio di un giorno di giugno, ci trovammo in beata solitudine al Passo (o Forcella) Posporcora, valico boscoso che separa le pendici dei Tonde de Cianderou dal Col Rosà, pilastro angolare del gruppo della Tofana.
Il Passo, quotato 1711 m e dal toponimo arcano, dovrebbe essere il passaggio meno elevato tra i monti d’Ampezzo, e agevola la comunicazione fra la Valle del Boite e la Val Travenanzes. 
Prima di diventare strategico nella Grande Guerra per il trasferimento delle truppe italiane verso il fronte, fu per secoli al centro del transito più breve per condurre il bestiame da Cortina ai pascoli di Travenanzes, e per questioni di alpeggio fu spesso teatro di dispute fra i regolieri. 
Citato da Grohmann come belvedere sulla valle e le montagne di Cortina, oggi Posporcora si è piuttosto rinselvatichito, e fra le piante si fa quasi fatica a distinguere le vette delle Pezories e del Pomagagnon, che lo fronteggiano, di là dalla valle. 
Pur essendo di comodo e facile accesso, risulta però che il Passo sia frequentato - in proporzione - quasi meno da camminatori che da bikers,  i quali (non so esattamente perché) da anni adorano fare lo slalom lungo la Val Fiorenza.
A Posporcora si sale comodamente da Pian de ra Spines, oltre Fiames, per le regolari e strette serpentine (numerate col 409, per l'esattezza) tracciate dagli italiani durante la Grande Guerra, 
Ruderi italiani della Grande Guerra
sotto il Passo Posporcora (foto E.M., 2004)
  che rimontano l'impluvio densamente boscato dal romantico nome di Val Fiorenza. 
In un punto della valle, qua e là sconvolta da qualche frana, si troverebbe il Souto del Ris-cia, risalto dove, in un remoto inverno - un ampezzano della famiglia Hirschstein, avvallando legna con la slitta, uscì di strada distruggendo la slitta e disperdendo il carico. Pur avendolo cercato, però, non l'ho mai esattamente localizzato.
Per chiudere queste divagazioni su un bell'angolo del mondo: sul far della sera di un giorno di giugno, in cui era comparsa anche la pioggia, lassù a Posporcora - meta di tante escursioni, prima e dopo di quella - oltre a neppure un alito di vento, non trovammo un'anima. 
Riuscimmo così a goderci appieno alcuni attimi irrinunciabili, di pace e di tranquillità nella natura.

29 ott 2015

Le cavernette sulla cresta di Ra Ciadenes, nascondiglio ideale

Nei momenti di tensione che sempre più pervadono il nostro tempo, credo che in molti aspiriamo a trovare un luogo in cui - potendolo fare - rifugiarci per sfuggire alle banalità e ai rischi per la salute fisica e spirituale che ormai quotidianamente la vita ci impone, dal livello paesano a quello nazionale e oltre. 
Con un po'  d'ironia, da anni sostengo che, qualsiasi cosa accadesse, dovendo scegliere un luogo specifico della valle d’Ampezzo come "rifugio anti-atomico", l'avrei già pronto. 
Si tratta delle tre piccole caverne affiancate che, con occhio attento, si possono individuare dalla SS51 d’Alemagna nei pressi del ponte sul Ru de r’Ancona ma, seppure visibili, se ne stanno quantomai isolate. 
La zona in questione, da In Col
(foto E.M., 16 maggio 2010)

Le caverne caratterizzano la vasta dorsale di vegetazione e rocce che dal crinale tra Ra Ciadenes e la Croda de r'Ancona scende sulla strada, sulla sinistra orografica del Rio de r’Ancona. 
Allineate su una cengia allo stesso livello, furono sicuramente realizzate durante la Grande Guerra dagli Austriaci, per alloggiarvi un presidio dal quale controllare la prima linea nemica. La chiave per raggiungerle sono tracce sempre più labili, seppur indicate da radi bollini rossi (forse anche ripassati da chi - oggi convinto a miglior causa - per un periodo si divertiva a "facilitare" molti angoli reconditi delle nostre montagne).
Le tracce partono dalla SS51 poco dopo il ponte e rimontano la ripida e dirupata costa, fino ad incrociare in alto altre tracce, che da Ra Ciadenes - I Śuoghe traversano al Busc e risalgono sulla Croda de r’Ancona. Ho frequentato molto la dorsale e anche alle caverne sono salito alcune volte, sempre in bassa stagione perché il versante è ben soleggiato, e ideale da percorrere con temperature più miti. 
L’isolamento del luogo è, mi piace dire, altissimo; l’atmosfera che lo caratterizza è di "wilderness" quasi totale, e per questo - nella mia fantasia – penso che salire lassù significherebbe accomiatarsi veramente dal consorzio umano. 
Certo, per installarsi nelle cavernette, anche seguendo la vita spartana del primo conflitto, ci vorrebbero abiti, acqua, coperte, legna, radio, viveri e ciò che la vita ci chiede di possedere; ciononostante ogni tanto immagino le cavernette di Ra Ciadenes come un nascondiglio ideale in caso di bisogno!

23 ott 2015

La Cima NE di Marcoira e il suo regale isolamento (500° post di ramecrodes!)

Chi è convinto che a Cortina, soprattutto nella stagione turistica, manchi un angolo isolato, riservato e silenzioso ove trascorrere qualche ora guardando il cielo, non conosce Cortina a sufficienza. 
Discostandosi dalle mete lisciate da migliaia di passi e muovendosi verso direzioni meno scontate, anche in agosto - infatti - è dato scoprire boschi solitari, cime disertate, forcelle mute,  dove potersi ritrovare a tu per tu con se stessi. 
Uno di questi luoghi è la Cima NE di Marcoira (2422 m): una montagna di accesso abbastanza breve ma comunque non banale né banalizzata, che tanti locali non sanno nemmeno dove sia. Una vetta che salta agli occhi a chi transita sul Passo Tre Croci ma comunque, non rientrando fra "le 100 più belle" non sarà mai gettonata come altre cime vicine e famose. 
Di una possibile "via normale" la guida Berti, diffusa fino alla mia generazione, non dice nulla. Fino alla fine degli anni '80, nemmeno io avevo mai preso in considerazione l'idea di raggiungere la vetta della Marcoira dal lato più semplice: poi la salii un paio di volte con gli amici e intorno al 2000 la cima cominciò a attirare qualche visitatore in più, per merito di un mio articolo uscito sulla rivista "Cortina" e del primo libro di vetta, un piccolo notes collocato lassù il 10.10.1999, nel giorno in cui gli Alpini scalarono molte cime delle Dolomiti lanciando razzi tricolori per la fine del secondo millennio.
Sulla Cima NE di Marcoira
(foto E.M., luglio 2003)
Anche se la sottostante Forcella Marcoira e la adiacente Forcella del Ciadin e i sentieri che le attraversano, rientrando nell'area Faloria-Lago del Sorapis, sono mete ambite e calpestate da migliaia di turisti, sulla Cima, dalla quale scendono verso le forcelle pendii erbosi ripidi e tappezzati di stelle alpine, si gode un isolamento regale. 
Nota ai pastori che per secoli monticarono gli ovini nella verde conca del Ciadin del Loudo, esplorata tra gli anni '20 e '40 del Novecento da alcuni appassionati (Casara, Castiglioni, del Torso), che ne scalarono pareti e spigoli, la Cima offre oggi una distensione assoluta. 
Per giungere sulla piccola ma comoda sommità, ci vuol mezz'ora da Forcella Marcoira, sulle peste di pecore e camosci, e il tragitto non è difficile anche se postula un poco di attenzione. Se già fra gli alberi di Tardeiba, via via che si sale, risuona la voce del silenzio, sulla Cima NE di Marcoira ci si può sentire assai lontano dal mondo: lo afferma chi ha perseguito spesso mete di quel genere, ogni volta con intima soddisfazione per il risultato conseguito.
La "Marcoira" è una gita abbastanza breve, ma rappresenta senz'altro un’esperienza alpinistica di notevole spessore, e così la ricordo, dopo averla salita quasi una decina di volte.

19 ott 2015

Briciole di storia: le prime quattro salite della Torre Grande d'Averau

Da un testo fondamentale per l'esplorazione delle Alpi Orientali uscito a fine '800 (Die Erschliessung der Ostalpen, vol, III, 1894), consultato in casa di un amico, appassionato anch'egli di ricerche sulla vicende storiche delle Dolomiti, mai avrei pensato di imbattermi in un inciso inedito, utilissimo per la storia delle "mie" crode. 
Ho ritrovato, infatti, i dati della seconda, della terza e della quarta salita della Torre Grande d’Averau (Cima Nord) per la via originaria dal lato della Tofana, conquistata il 17.9.1880 dal britannico C. G. Wall con la guida Giuseppe Ghedina “Tomasc”. 
La Torre Grande d'Averau, Cima Sud a sinistra
e Cima Nord (foto E.M., estate 2009)
Per vedere altri alpinisti in vetta alla Grande, la prima del celebre gruppo ad essere salita, trascorse poco meno di un anno. Il 27.8.1881, infatti, ne calcarono la sommità tre ampezzani, che, secondo la citazione, pare di poter considerare dei "senza guida" ante litteram: Luigi Majoni (forse “Coleto”, 1856-1932, mio antenato), Giovanni e Antonio Verocai "Zanpòulo", probabilmente fratelli. 
Due stagioni ancora ed ecco la terza salita, da parte di altri quattro ampezzani, due dei quali guide e uno aspirante. Il 5.6.1883 salivano la via della Torre Grande Angelo Menardi “Malto” (una delle prime gude d'Ampezzo, abilitato dal 1873), il ventunenne Luigi Picolruaz “Nichelo”, guardacaccia che stava facendo pratica per diventare guida (e lo sarebbe divenuto l'anno seguente), Simone Ghedina “Fraio” (abilitato dal 1882) e Giuseppe Girardi. 
Un anno dopo, infine si registra la quarta ascensione della torre, a questo punto seconda senza guide e prima non ampezzana: i viennesi August Böhm e Carl Diener giungono, infatti, in vetta il 6.6.1884. 
"Die Erschliessung der Ostalpen" non dà, purtroppo, notizie anche della prima solitaria e della prima invernale della via (valutata oggi di primo e secondo grado), sulla quale si sono divertite generazioni di frequentatori della montagna, novellini ed esperti, e dove anche il sottoscritto ha accumulato qualche ricordo di gioventù.

15 ott 2015

Uomini della montagna: ricordo di Piero Mazzorana

Tempo fa argomentavo che, statisticamente, a Cortina abbiamo avuto molte guide che - grazie a una salute di ferro e a un indefesso entusiasmo - sono state attive per tre, talvolta quattro decenni, e dell’alpinismo hanno fatto – com'è plausibile – quasi una ragione di vita, comunicando a clienti e amici l’amore per i monti sino a età non più verde. 
Anche fuori dal circondario ampezzano, comunque, ci sono guide che hanno arrampicato per decenni, con o senza clienti, traendo sicuramente dalle scalate le stesse emozioni e lo stesso piacere della gioventù. 
Cito a caso: a Misurina Valerio Quinz (1928-2008), attivo sui monti e sugli sci fino a pochi anni prima della scomparsa; sempre a Misurina, Alziro Molin (1932), che ha arrampicato e aperto vie nuove fino a ben oltre i 70; a San Vito di Cadore c'era Natale Menegus (1938-2008), scomparso settantenne durante una scialpinistica in Marmolada, e il suo compagno di gioventù Marcello Bonafede (1939), attivo in croda almeno fino al 2011, quando ebbe la sventura di perdere il figlio Alberto, guida e soccorritore caduto tragicamente dalla Nord del Pelmo. 
Rimandando ad una prossima occasione la citazione di altre figure, voglio però ricordare ancora una volta un personaggio forse non abbastanza analizzato della storia dolomitica: Piero Mazzorana. Nato nel 1910 a Longarone e venuto ad Auronzo molto giovane, aprì la sua prima via nuova a vent'anni. Fu guida dal 1936, e fino al 1949, quando ottenne la gestione del rifugio ai piedi delle Tre Cime che condusse fino a metà degli anni '70, aprì almeno settanta nuove vie in Dolomiti, di cui una sessantina soltanto nel gruppo dei Cadini di Misurina, dove quasi ogni punta ha una via Mazzorana e alcune sono famose e frequentate. 
Passiamo alla storia personale. Il 4 settembre 1977 salii con Enrico la via Comici-del Torso sulla Punta Col de Varda, prossima all'omonimo rifugio (guarda caso, ha anch'essa una via Mazzorana, del 1937). In un barattolo sotto l'ometto, trovammo un pezzo di carta firmato proprio da Piero; tre giorni prima era salito da solo, a sessantasette anni, per la via Obliqua sulla stessa cima, che poi salii anch'io, in cordata ed anche in solitaria.
La Punta Col de Varda con la fessura Comici
(foto E.M., dicembre 2010)
Piero non aveva purtroppo ancora molti anni da vivere, giacché si spense nella primavera 1980 a Merano, dove si era trasferito presso le figlie. Mio padre me lo aveva presentato su all'Auronzo, ma ero giovanissimo e non m'interessavo ancora di storia e storie di montagna; anche se non parlai con lui per sapere qualcosa di più, mi è rimasta impressa la figura alta e massiccia di quell'uomo, che vagò per le montagne per una vita intera e il cui nome fa bella figura nella storia delle crode che circondano la "sua" Misurina.
Mi piacerebbe che, presto o tardi, qualcuno prendesse in mano i documenti che spero siano disponibili e mettesse insieme un po' di biografia di questa guida alpina, un uomo che merita un ricordo, anche se un ricordo ce l'ha già nelle migliaia di metri di roccia dolomitica targati Mazzorana.

12 ott 2015

Storia e storie d'Ampezzo: i "cabiote", ovvero i primi ristorantini di montagna

Prima della Grande Guerra, che stravolse la struttura socio-economica della valle, a Cortina esistevano alcuni caratteristici "cabiote", gli antenati degli attuali ristorantini di montagna. 
Ne ricordiamo cinque, tutti curiosamente gestiti da donne, che comunque non esaurivano la mappa dei locali pubblici dell’epoca. Il più noto era indubbiamente il Cabioto de ra Méscores. Situato presso il Ponte Outo sul Rio Travenanzes, a due ore abbondanti di cammino da Cortina lungo il sentiero per la Viktor-Wolf-von Glanvell Hütte in Val Travenanzes, era gestito dalle sorelle Franceschi Méscores, note per la cucina sopraffina. 
Sulla vecchia strada che saliva al Passo Tre Croci, in uno spiazzo prossimo all'edificio che è stato il Ristorante Malga Lareto, sorgeva il "Cabioto de ra Scèca". Piccolo e tutto di legno, offriva servizio di osteria e rustico ristoro, ed era gestito da Anna Verzi Scèca. 
Poco prima di questo, sulle rive dello specchio d'acqua detto Lago Scin (esattamente Laguscìn, ossia laghetto), un terzo "cabioto", condotto dalle sorelle Majoni Pioanèles, esponeva sopra la porta d'ingresso una pomposa insegna, "Restaurant Lago-Scin". 
Lungo quella che prese il nome di Strada delle Dolomiti, nei pressi del belvedere della galleria di Crépa, c'era il quarto "cabioto". Lo tennero per anni le sorelle Angelina e Rosa Colli Saèries, figlie di Giacomo, guida alpina e storico gestore dell'Ospizio di Falzarego. Nel 1929, la Guida illustrata di Cortina, opera di Federico Terschak, citava l'edificio, censito fino alla metà del '900, come "l'isolato Ristorante Miravalle, sito sull'orlo del bosco". 
Il Cabioto de ra Mèscores a Ponte Outo,
agli inizi del '900 (raccolta E.M.)
Un altro punto di ristoro, anch'esso in gran parte di legno, sorgeva poco lontano dal Miravalle, nel luogo detto Belvedere sull'orlo del roccione di Crépa, dove giunse dal 1925 la prima funivia di Cortina. Il rinomato Belvedere, nei cui pressi fu costruito nel 1936 l'Ossario dei caduti della Prima Guerra Mondiale, si raggiungeva per due sentieri, tuttora fruibili: uno partiva dalla Strada delle Dolomiti e l'altro dalla Crosc de Ester, lungo la carrareccia che per Inpocrepa porta a Pocol. 
Terschak ricordava ancora un locale, il Ristorante al Museo, annesso al Museo Elisabettino fondato da Agostino Colli Codèsc: questo "trovasi ad ovest di Cortina, sopra il villaggio di Ronco", in una "casa di legno, creduta una delle più antiche della valle. Bellissima vista. Varie antichità". 
Che cosa rimane oggi di tutte quelle costruzioni che vivacizzarono il turismo ampezzano? Forse qualche sasso, vaghi ricordi ed alcune preziose immagini.

Sachsendank 1883 Nuvolau 2023. 140 anni di storia e memoria

Ernesto Majoni e Roberto Vecellio, Sachsendank 1883 Nuvolau 2023. 140 anni di storia e memoria , pp. 96 con foto b/n e a colori, Cai Cortina...