31 lug 2012

Ricordo di Sepp Mayerl (1937-2012)

Sepp Mayerl (Photo Kleinezeitung.at Günther Hatz)

Il 27 luglio Sepp Mayerl, famoso alpinista austriaco, è caduto arrampicando sulle Dolomiti di Lienz.  Classe 1937, negli anni '60- ’70 il “Blasl-Seppl” aveva salito il Lhotse Shar e aperto nuove vie in Dolomiti, alcune delle quali in cordata con  Messner, che l’ha definito uno dei suoi grandi maestri.
L’incidente si è verificato sabato mattina. Secondo la stampa austriaca, Mayerl stava salendo con un amico una via non difficile sulla parete N dell’Adlerwand. Pare che i due volessero giungere in cima per vedere la nuova croce, ma lungo la parete una frana improvvisa avrebbe strappato dalla roccia il noto alpinista. A nulla è servito, purtroppo, l’intervento dei soccorritori.
Mayerl era nato a Dölsach, presso Lienz, nel 1937. Oltre a salite in Himalaya, tra cui quella del Lhotse Shar (cima secondaria del Lhotse), l’alpinista tirolese sarà sempre ricordato per il diedro sul Sass dla Crusc - Cunturines (con M. Rohracher, 1962) e per le prime invernali della parete N e dello spigolo N dell'Agner, realizzate con Reinhold Messner ed altri nel 1967 e 1968.
Nel 1967 inoltre con Messner, Reali e Holzer aprì la “Via degli Amici” sulla parete NO della Civetta, grande itinerario in libera. Coi fratelli Messner tornò sull’Agner nel 1968, scalando la parete NE per una via nuova in prima invernale. Nel 1970 aprì una via anche sulla Punta Civetta, con il meranese Leo Breitenberger.
Personalmente, mi rimane l'orgoglio di aver conosciuto Sepp Mayerl lo scorso agosto a Sesto Pusteria, quando l'amico Bepi Pellegrinon me lo presentò prima della serata incentrata sul nuovo volume, edito da Nuovi Sentieri, "Michl", che racconta la storia di Michl Innerkofler e delle guide alpine di Sesto.

28 lug 2012

Breve, ma interessante: il Col Siro

È stata sicuramente una buona idea, prendere un giorno di ferie per guidare l'amico Mirco, venuto apposta da Treviso con questo singolare "pallino", sul Col Siro, che salivo per la terza volta ed ero lieto di fargli conoscere.
Il Col Siro, dall'etimo quantomai strambo, è un rialzo tondeggiante quotato circa 2300 m, magramente pascolivo sul lato che guarda la Zesta e la Punta Nera, le due elevazioni più imponenti della diramazione ampezzana del Sorapis, e roccioso sul lato opposto. Domina isolato la Monte de Faloria, e può rappresentare una facile e gradevole, quanto sconosciuta passeggiata con base ai rifugi della zona.
Per chi è "saturo" di grandi Dolomiti (e qualcuno c'è sempre), o non ha voglia di faticose cavalcate, può valere la pena salire soltanto il Col Siro, che nonostante le dimensioni è una cima autonoma, sicuramente nota ab antiquo a cacciatori e a pastori. 
L'altro giorno, lassù ho ritrovato intatto il robusto ramo a mo' di croce che avevo infilato  nell'ometto di vetta nella mia prima salita del 2003. Le piogge, le bufere, la neve e gli scarsi aspiranti salitori, evidentemente, non lo scalfiscono più di tanto...
Dalla sommità, oltre a scattare numerose fotografie sulle cime che si dispiegano a destra e manca, scrutavamo il transito sul sottostante sentiero 213, che traversa al piede della Zesta per salire a Forcella del Ciadin e scendere da una parte a Forcella Marcoira e dall'altra al Lago del Sorapis.
C'era un discreto movimento, come si conviene ad una bella giornata estiva, ma nessuno prima e dopo di noi aveva optato per la cima, dove l'unica presenza costante è un segnale trigonometrico. Egoisticamente, è meglio così.

23 lug 2012

Su una cima verde, facile e ventosa

Un paesino quasi da fiaba, posto sotto tutela ambientale e famoso soprattutto per le piste di sci di fondo. Un rifugio moderno e ospitale, accessibile con una traballante seggiovia (la prima volta, nell'inverno 2009-2010, salimmo a piedi, ma quest'anno volevamo risparmiarci le due ore di strada forestale). Una cima verde dal toponimo oscuro, che domina un piccolo lago nel quale si specchiano ghiacciai e un nucleo di fienili abbandonati: sono la zona e la montagna dove siamo tornati ieri, bissando la salita in due stagioni. 

Dal rifugio non occorre un'epica sgroppata per guadagnare la cima, conosciuta dalla gran parte di coloro che arrivano lassù,  per il panorama a giro d'orizzonte che offre; sulla sommità alcune tavole aiutano a riconoscere le tante vette visibili, in parte italiane e in parte estere.

Sotto la croce, nonostante la folla che movimenta la cima per tutta l'estate, siamo risuciti ad accaparrarci un catino erboso dove sgranocchiare qualcosa e riposare; un riposo molto breve, perché la giornata era incerta e tormentata da un vento quasi autunnale, alternato ad un pallido sole. Fotografie verso nord, sud, est e ovest, e poi un'idea: come in pieno inverno, una fumante Gulaschsuppe con una bella birra al rifugio, e ... passa la paura! 

Ah, dimenticavo: il paesino in questione è Obertilliach, tra Tirolo e Carinzia; il rifugio è il (Panorama Restaurant) Connyalm; il laghetto, dal quale si scorge il Grossglockner, è lo Jochsee; il nucleo di fienili abbandonati si chiama Joch, mentre la cima verde, facile e ventosa è il Golzentipp (2317 m.), ultima propaggine delle Lienzer Dolomiten e displuviale fra la Lesachtal e la  Pustertal austriaca che scorre verso Lienz.

21 lug 2012

Il diedro della Cima del Lago



Nel periodo di fervore alpinistico, salii per quattro volte (e mezza) una via che penso rimanga, esteticamente e qualitativamente, fra le più belle classiche offerte dalle cime attorno a Cortina. 
Il giudizio comunque è soggettivo, e deriva più che altro dal fatto che sull’itinerario soltanto una volta, la più sfortunata, ci accadde di trovare altri salitori. 
Mi riferisco al diedro OSO della Cima (o Torre?) del Lago nel Gruppo di Fanes, che si specchia nel laghetto del Lagazuoi. Il diedro fu scoperto nell'agosto 1954 da Paolo Consiglio, Marino Dall’Oglio e Gianni Micarelli, tre  romani che stavano battendo la zona di Fanes - Cunturines per scoprirvi nuovi e interessanti itinerari. 
Dimenticato per alcuni anni, venne poi rivalutato dal triestino Enzo Cozzolino, che lo salì per primo da solo intorno al 1970, e da allora fu ammesso nelle antologie di scalate scelte come una via interessante e piacevole. 
Sul diedro della Cima del Lago
(foto A.M., 21/7/85)
Il dislivello totale del diedro è di 400 m: i primi 150 hanno difficoltà limitate e roccia non eccellente, mentre il resto si svolge su roccia ottima, con sei tirate che in un paio di punti toccano il 4+. Ricordo che in quegli anni i chiodi erano rari (meno degli undici dichiarati dai primi salitori), ma comunque bastavano, potendosi assicurare naturalmente un po’ dovunque. 
La mia prima visita al diedro della Cima del Lago avvenne il 26/9/80, quando mi ci portò Enrico, Scoiattolo e poi guida. Il 27/8/81 vi tornai da capocordata con Mario di Bologna, lasciando sull'ultima cordata un libretto di via che, quattro anni dopo, non c'era già più; il 21/7/85, ventisette anni fa, lo salimmo in alternata con Sandro in un’ora e mezzo dalla base, e infine vi tornai il 5/10/86 con Nicola, ancora da capocordata. 
A queste salite aggiungo il tentativo, arenatosi alla fine del primo tratto per le cadute di sassi provocate da altre cordate che arrancavano sopra di noi, compiuto con mio fratello, Cinzia e Michele, il 3/10/82.
Il ricordo della salita, tecnica ma mai snervante, in un ambiente maestoso, con una discesa abbastanza breve e semplice ma comunque non banale, dopo anni è sempre vivo, e vorrei mantenerlo per lungo tempo.

16 lug 2012

Don Luigi, vent'anni dopo

Domenica 15 luglio, con una Santa Messa nella Pievanale di  San Vito di Cadore e una cerimonia al Centro Turistico Dolomiti a Borca, in cui diverse persone hanno portato una testimonianza di amicizia e gratitudine, è stato ricordato il XX anniversario della scomparsa di Don Luigi Frasson, sacerdote, docente, amante della Montagna. Fra i testimoni che hanno parlato, c'era, modestamente, il sottoscritto, unico ex liceale presente (salvo errori) fra quelli che frequentarono il "Pio X" negli anni '70.
Ecco il sunto della mia testimonianza. Il 1° ottobre 1972 iniziai a Borca la IV  ginnasio. Trascorremmo il primo biennio nell’edificio della Ragioneria, oggi desti­nato ad altri usi; passammo poi per due anni nel convitto "Pio X" e nel­l'autunno 1976 salimmo a San Vito, nell'at­tuale sede del Liceo Ginnasio.
Dal terzo anno di scuola, quando entrammo nei locali del "Pio X", ci fu professore di lettere Don Luigi Frasson, che noi, con l'irriverenza tipica dell'età, soprannominavamo “il Gigio”: un educatore cui penso che molti dei diplomati del Classico a Cortina, in Cadore e altrove debbano riconoscenza.
La mia conoscenza e frequentazione di Don Luigi furono unicamente scolastiche. Ricor­do un ottimo comunicatore, simpatico, autorevole ma non au­toritario; mi fece amare tanto la letteratura italiana, che alla matu­rità volli portarla per prima materia, anche se poi gli studi universitari volsero in altra direzione. Entrambi amavamo  le montagne; ne par­lavamo spesso, e un giorno Don Luigi mi propose anche di fare una salita con lui; avevo individuato la parete della Punta Fiames, che già conoscevo, ma poi la cosa, per vari motivi, non ebbe seguito.
Becco di Mezzodì, dal sentiero 457
 (Carlo Bortot)
L'ultimo mio ricordo del sacerdote risale alla fine degli anni '80; una  mattina d’au­tunno lo incontrai davanti al Panificio Alverà di Cortina, vestito da montagna e col sacchetto del pane in mano. Mi salutò col suo sorriso furbesco, disse subito “I me gà dito mirabilia de ti”, poiché sapeva che avevo iniziato ­l'avventura di giornalista che vivo già da quasi trent'anni, e ci tenne a precisare che  stava andando sul Becco di Mezzodì, “la montagna che brilla, quando il sole la sfiora”.
Passarono anni. Nel 2001, per la Sezione del CAI Cortina compilai un opuscolo sul 100° del Rifugio Croda da Lago–G. Palmieri al Lago di Federa. Riordinando le fonti per ricreare la storia dell’edificio, dei suoi monti e della gente che l'animò, mi venne in mente che, quasi un decennio prima,  dal Becco di Mezzodì - proprio in faccia al rifugio - era caduto Don Luigi mentre arrampicava con due confratelli, spegnendosi poco  dopo all'ospedale.
Il 14/10/1995 ero tornato sul Becco con tre amici; mi ero imbattuto per caso nella placca scura in suo ricordo, posata su un masso lungo la traccia d'accesso da amici fiorentini, e poiché quel gesto mi aveva un po' commosso, non mancai di dedicare un paragrafo del mio libretto anche a lui.
Posso dire di non aver mai completamente dimenticato il mio do­cente, che ha instradato nella formazione culturale e umana alme­no due generazioni di stu­denti. Del suo insegnamento nel triennio liceale al "Pio X" conservo due fondamenti basilari: l’interesse per i libri (quanti me ne con­sigliò, quanti ne lessi!) e la passione per lo scrivere, due temi che al “Gigio” piacevano e ci comunicava con una partecipazione tutta particolare, forse non sempre condivisa, ma comunque efficace.
Oltre a ciò, Don Luigi amava la Montagna; il suo nome è scritto anche nella storia alpinistica delle Dolomiti, grazie ad una via aperta sulla Punta Ellie (Cadini di Misurina) il 30/7/1968 con un altro insegnan­te scomparso, Giovanni Orsoni, e due amici.
Dal Becco, una "montagnola" cui mi sento particolarmente affezionato, per­ché a diciassette anni vi compii la prima scalata, e trent'anni più tardi per ora anche l'ultima, si domina l'intera valle d’Ampezzo e, non è retorica, si sente davvero il cielo un po' più vicino.
Ho saputo che Don Luigi tornava spesso lassù quando poteva, per condividere con le persone più care la soddisfazione della salita e il panora­ma a giro d'orizzonte dalla vetta. Dal secondo ca­mino, liscio e un po’ strapiombante, che in un'occasione mise un po' a disagio anche me, il destino volle farlo cadere il 12/7/1992.
Mani amiche hanno inteso ricordarlo sommessamente con la placca citata, incastonata in un grande blocco lungo la traccia che si deve seguire per raggiungere il Becco da Forcella Ambrizzola.
Non ho idea se la placca sia ancora lì, né se sia ancora leg­gibile. Chi non lo sa, quasi certamente vi transita accanto senza eccessiva attenzione: ma chi scrive la ricorda lassù, ad eternare sulle  Dolomiti un pen­siero di gratitudine per Don Luigi, sacerdote, educatore, amante della Montagna.

14 lug 2012

Prima ascensione della Gusela de Padeon


Contrariamente a quanto afferma la storia ufficiale dell'alpinismo, la Gusela, o Bujela de Padeon,  marcato torrione cupoliforme ben visibile dalla Strada d’Alemagna nei pressi di Ospitale d'Ampezzo, che fiancheggia l'ombrosa Val Pomagagnon e viene salito abbastanza di rado, non fu raggiunta per la prima volta dagli indomabili soci della “Compagnia della Scarpa Grossa”. 
Gli austriaci Viktor Wolf von Glanvell e Karl Gűnther von Saar, infatti, si erano attribuiti la prima salita della guglia, effettuata il 28/7/1900 nel corso di una breve, ma fruttuosa campagna sulla dorsale del Pomagagnon.
Gusela de Padeon, dalla I Pala de ra Pezories
(foto di Roberto Vecellio)
La conquista della Gusela (o Bujela, cioè ago), poca cosa dal punto di vista della scalata (terreno  impervio, passaggi fino al 1+) ma significativa per la storia, andrebbe ascritta a un cacciatore, Andrea Cortese del casato dei “Zen”, nato a Zuel d'Ampezzo il 13 giugno 1808.
Secondo quanto riporta un cartiglio scovato di recente tra i documenti di un'antica famiglia ampezzana, Andrea sarebbe salito in cima alla Bujèla (“la Gusella, il monte che fa la guardia alla valle del Po Magagnon”) addirittura il 16/10/1833, quindi esattamente un trentennio prima che iniziasse l’epopea dell’alpinismo in Ampezzo. 
Cortese giunse lassù da solo, fiutando un camoscio; nella salita trovò “non pochi perigli, essendo le roccie in taluni punti coverte di fine ghiaccia”,  riuscì a bloccare l'ungulato e si portò a casa una riserva di carne da riporre in soffitta per l’inverno. 
Il cacciatore morì assai giovane, di “angina pettorale”, il 26 novembre 1850: era figlio unico, celibe, e così la memoria della prima ascensione alpinistica ufficiale d’Ampezzo si perse con lui. Ora ne è stata inaspettatamente ritrovata la notizia, di cui faccio memoria al fine di correggere la cronaca, che attribuisce a Francesco Lacedelli  da Meleres, Angelo Dimai Deo e Paul Grohmann, il 29 agosto 1863, il primo successo sulle nostre montagne”. 
Nota.
Purtroppo questo raccontino è soltanto frutto della fantasia di chi scrive. Sarebbe interessante poter emendare la storia alpinistica di Cortina in tal senso, e con molta probabilità qualcosa di simile sarà anche accaduto, ma  documenti del genere sopra citato non ne sono stati ancora rinvenuti. La  speranza di fare uno "scoop", in ogni modo, non muore mai …

11 lug 2012

11 luglio 1982: Mondiali e Torre Wundt

Domenica 11 luglio 1982.
Per l'Italia intera è il giorno della stupenda vittoria ai Mondiali di calcio; per me, più di quello, è il giorno della  mia quarta salita della fessura Mazzorana sulla Torre Wundt,  compiuta con l'amico Arturo.
Torre Wundt, con la parte superiore della fessura Mazzorana-del Torso:
ai suoi piedi il Rifugio F.lli Fonda Savio
Di ritorno dalla salita  nel primo pomeriggio, facciamo tappa a Misurina e festeggiamo con un'enorme birra. Scesi a Cortina, doccia, pizza e tutti da un altro amico, per assistere in compagnia al fatidico 3-1.
Varie altre birre per la vittoria e a sera l'immancabile carosello in macchina lungo la circonvallazione, strombazzando con i clacson in segno di adesione all'evento. 
Per me. che sono momentaneamente libero da impegni di studio, alterno gite a scalate e per il calcio non ho mai avuto un grande trasporto, l'11 luglio 1982  fu riempito dalla fessura Mazzorana della Torre Wundt, scoperta per caso un anno prima e dopo di allora ripetuta per altre quattordici volte.

9 lug 2012

40 anni della via ferrata Olivieri sulla Punta Anna

Proprio quarant'anni fa, domenica 9/7/1972, s’inaugurava la nuova via ferrata sulla Punta Anna delle Tofane, costruita per iniziativa della guida Luigi Ghedina Bibi, proprietario e gestore del sottostante Rifugio Pomedes, e dedicata all'alpinista veneziano Giuseppe Olivieri. 
L’itinerario, piuttosto impegnativo poiché munito solo di corde metalliche, costituisce una variante migliorativa della via ferrata alla Tofana di Mezzo. Esso ne rimpiazza il tratto originario, ritenuto poco interessante, che dal piede delle rocce saliva sulla Punta per cenge, canali e salti a destra della cresta; raggiunge la sommità per l’aereo e  panoramico spigolo SE e riprende parte della via di roccia aperta sulla parete E della cima nel 1943.
Tofana di Rozes, Punta Anna e Tofana di Mezzo
dal Bèco d'Aial, agosto 2008
Dalla Punta, che può bastare anche come meta a sé stante, si può scendere al Rifugio Giussani per una cengia attrezzata e poi per ghiaie, restare in cresta fino al Busc de Tofana, da cui si raggiunge la stazione di Ra Vales della funivia o il Rifugio Giussani, o ancora  proseguire fino in Tofana.
Lo scrivente, all’epoca poco meno che quattordicenne, era presente con il padre e un suo collega all’inaugurazione della ferrata, e ricorda bene la scivolata del Parroco-Decano di allora Mons. Angelo Dapunt su una ripida lingua di neve che resisteva ai piedi della parete, prontamente arrestata da due guide di Cortina presenti alla cerimonia.
Con le stesse guide in testa e in coda alla piccola comitiva, percorsi poi la ferrata, giungendo in vetta con l’emozione che solo un ragazzo di quattordici anni può provare e chiudendo la giornata al Rifugio Giussani, inaugurato ufficialmente due mesi più tardi.

5 lug 2012

La Torre che volle morire (per la caduta della Torre Trephor, 2004).

La torre era ormai allo stremo delle forze: il suo grande corpo si era incurvato, la sua voce era sempre più flebile, respirava a fatica, tremava spesso di freddo e si sentiva addosso tutto il male di vivere.
Da lungo tempo soffriva d’ipocondria e di un invincibile complesso d’inferiorità nei confronti delle sue dieci sorelle, tutte più alte, robuste e frequentate di lei.
Incastonata nel verde catino che fronteggia la tricuspidale Torre Seconda, sopportava sempre più a stento il vociare degli escursionisti che le lambivano i piedi senza degnarla di uno sguardo, e degli scalatori che l’aggiravano dirigendosi con baldanza verso mete più rinomate e alla moda (perlopiù le acrobatiche vie sportive, dove da anni numerosi anelli lucenti avevano incatenato pareti, diedri e spigoli e rimbalzavano i raggi del sole).
Si sentiva ormai vecchia e malconcia, la povera torre: il suo atto di nascita ufficiale, infatti, risaliva ad ottant’anni prima.
Un lontano giorno di settembre, Angelo gran (simbolo delle guide locali, allora quasi cinquantenne, che dopo i trionfi degli anni d’oro continuava a mietere successi sulle Alpi intere), Ijuco (aitante e baffuto ragazzo del ’99 che portava clienti in montagna da tre stagioni e si trovava a proprio agio con Angelo gran), e Angelo pizo, ventiseienne che aveva ricevuto in eredità dal padre Agostino la passione per le crode, la guardarono per la prima volta con un certo interesse.
Una sera, tornando a casa da una scalata d’allenamento, le guide si erano attardate sui prati d’Averau per scrutare ogni ruga rocciosa, nel tentativo di scoprire una possibilità di guadagnare la cima, ornata da un ciuffo di mughi non ancora sfiorato dall’uomo.
Dopo diversi tentativi, i tre convennero di riservare al pizo il compito di tentare l’ascesa della torre, dovunque strapiombante e all’apparenza inaccessibile, a meno di non ricorrere a qualche artifizio.
Con un macchinoso lancio di corda da una guglia adiacente, organizzarono, infatti, una traballante teleferica che consentì al più leggero del terzetto di portarsi agevolmente sull’aerea sommità del campanile.
Angelo provvide ad aiutare i compagni che, sorretti dalle sue robuste mani, s’inerpicarono sulla corda agili come gatti, e – mentre il sole saliva allo zenit - sfiorarono delicatamente i mughi che non avevano mai ricevuto carezze.
Dopo un breve consulto, le guide decisero d’intitolare la torre – storpiandone incomprensibilmente il nome – a Edward, affezionato cliente di Angelo gran e di Ijuco, che ogni anno soggiornava per lunghi mesi in paese scalando le cime più belle della conca, e poco tempo prima era stato guidato da Ijuco lungo una parete nascosta, prossima ad un lago ceruleo.
Da allora, trascorsero molti anni prima che qualcuno s’interessasse ancora alla torre, l’ultima ad essere conquistata nel magico giardino roccioso che guarda le Tofane.
Neppure il Deo, Celso, Bepe, Cassiano, Rico, Fausto, Giovanni, Ignazio, il Mescol – che sulle torri erano di casa, vi portavano spesso i clienti e v’intuirono mezza dozzina d’itinerari divenuti presto famosi – rivolsero più un serio pensiero alla torre, che pure avrebbe potuto mettere a dura prova i loro bicipiti, il loro equilibrio e le loro capacità.
Poco prima della guerra, Piero, consigliato dal fratello Ijuco - che ricordava bene l’acrobatica traversata di quel lontano settembre, ma non aveva più avuto occasione di provare la torre – riuscì a violarla dal basso con qualche chiodo, tracciando da solo una vietta, che si rivelò la soluzione più indovinata per sottomettere la scorbutica guglia.
Trascorsero estati torride e gelidi inverni: poca gente rivolgeva uno sguardo interessato a quel nanetto sovrastato, quasi schiacciato da giganti di dolomia più snelli e famosi, dove i turisti facevano la fila per salire.
Di rado, qualcuno toccava l’aerea cima: Angelo gran, che aveva i capelli bianchi ma l’entusiasmo di un adolescente, vi salì col figlio, poco prima di perderlo sotto una valanga su monti lontani; in un attimo di riposo dal lavoro ci provò anche Ugo con Piero suo cognato, e Attilio, principe dolomitico salito in Potor con Mariola, ebbe un brivido di paura notando che uno dei chiodi di Piero era pericolosamente inclinato e non avrebbe retto a lungo il peso di un uomo.
Vent’anni dopo la conquista, in una tiepida giornata autunnale Marino, guida quarantenne divenuto da poco papà, s’inerpicò da solo sulla cima dal versante più ombroso, senza lasciare traccia dell’itinerario seguito, divenuto quasi leggendario.
Finalmente, una mattina di fine agosto, il giovanissimo Paolo – che conosceva già molti segreti delle crode, ma dopo la morte del fratello in montagna, aveva ripreso a scalare da poco - attaccò con un amico il versante più ostico della guglia: una parete gialla alta trenta metri, rotta a metà da una nicchia che pareva scavata da un’aquila a colpi di becco, priva d’appigli e strapiombante.
Dopo cinque ore di lotta, i giovanotti ebbero ragione della lavagna rocciosa, non senza averla ferita con diciotto chiodi: per un ventennio la via rimase la più difficile della torre e altri due ragazzi come loro, attratti dalla possibilità di giungere per primi in vetta d’inverno, non ebbero fortuna e dovettero battere in ritirata di fronte a trenta perfidi metri di roccia.
Passarono altri quattro lustri: dalla città vennero Bruno e Stefano, per salire in verticale dal basso la parete che Piero aveva scalato in diagonale, e decorarono la parete coi primi anelli lucenti, che già invadevano tante montagne.
La guglia era una delle cime meno significative delle Alpi, ma nel suo piccolo poteva vantare una storia movimentata e non priva d’interesse. Come la Torre del Diavolo, la Guglia de Amicis, il Campanile Paola, anche lei era stata salita a prezzo di sforzi funambolici, con manovre che i puri avevano criticato severamente come semplici giochi d’equilibrio, degni di ginnasti e non di amanti della montagna.
Un fresco giorno d’autunno di tanti anni fa, per solennizzare il suo ventesimo compleanno, anche un appassionato alpinista e futuro scrittore di montagna ebbe la ventura di salire la torre con il valente cugino, e sperimentare l’acrobatica discesa dalla parete sud, a corda doppia nel vuoto.
Era la prima di tre salite: seppur breve e non alla moda, al nostro scrittore parve sempre una grande impresa, di cui serba un affettuoso ricordo.
A dispetto degli acciacchi, la torre superò indenne la fine del secolo e l’inizio del terzo millennio: ogni tanto però, soprattutto in primavera, le giunture cigolavano e le facevano male le ossa, bagnate da tante piogge, da ghiaccio e dalla neve, che lassù resisteva copiosa fino a stagione inoltrata.
Lei si difendeva, soffriva senza mai lamentarsi con le sorelle più fortunate, e sperava sempre in un domani luminoso, in una riscossa delle cime dimenticate, delle pareti passate di moda, in un ritorno degli scalatori antichi, che parlavano alle montagne come romantici cavalieri medievali.
Le sarebbe piaciuto rivedere ancora una volta e riabbracciare insieme Angelo gran, Angelo pizo, Ijuco, Piero, Marino, Paolo e Zanier, coloro che sulle sue rocce avevano scritto brevi ma felici pagine di storia e l’avevano corteggiata ed espugnata con garbo e coraggio.
Avrebbe voluto scrollarsi di dosso quegli anelli luccicanti fissati con resine spietate, che non si scioglievano né con le bufere né con il solleone e richiamavano folle vocianti di scalatori in tuta variopinta e scarpette senza stringhe, con le radioline accese e il telefonino che squillava senza sosta.
Avrebbe voluto sparire dai libri e dalle riviste, da chi le faceva pubblicità pensando magari di farle del bene e disturbando invece il suo triste sonnecchiare, il suo languido declino di vecchia dama solitaria e fuori moda, la sua vita legata al filo di ricordi che non sarebbero più tornati.
Avrebbe voluto …
Un caldo giorno di inizio estate, mentre la natura si approntava ad esplodere, le ultime chiazze di neve si struggevano fra i massi sotto le carezze del primo sole e intorno alle torri vagabondavano turisti mattinieri, la guglia fu vinta da un attacco più forte degli altri.
Era la nostalgia per l’epoca aurea dell’alpinismo, per la signorilità degli scalatori antichi, per i silenzi che avvolgevano le montagne fuori stagione, per i tramonti dorati, per i volti amici delle vecchie guide, ormai tutte salite sulle cime del cielo.
La Torre morta
Volse un ultimo sguardo al sole e si lasciò andare con dolcezza, ripiegandosi su stessa con un fragore discreto, quasi un soffio e lasciando un gran vuoto fra le sue sorelle e nel ricordo di chi la conosceva e le voleva bene.
Al suo capezzale accorsero immediatamente frotte di geologi, impiantisti, guide alpine, curiosi ed esperti d’ogni genere; il silenzio fu infranto dal viavai degli elicotteri, i giornalisti riempirono colonne d’inchiostro, interrogandosi sul perché di una morte così repentina e tragica e paventando che quella scomparsa potesse scatenare chissà quale epidemia.
Non restava più nulla da fare: al posto della piccola torre che per secoli aveva sfidato il sole e il vento, la neve e la pioggia e aveva accolto pochi rocciatori desiderosi di conoscerla, rimaneva soltanto un grigiastro cumulo di macerie, coperte di polvere ed inutili.
In mezzo ad esse, campeggiavano i chiodi di Piero, Marino e Paolo e alcuni anelli lucenti, ormai raggiungibili senza fatica.

2 lug 2012

La Piccola Croda Rossa e le sue vie d'accesso


Ho calcato circa 10 volte la vetta della Piccola Croda Rossa, montagna aspra ma alpinisticamente non difficile, che fronteggia ad ovest la sorella maggiore e  apre suggestive vedute verso Fanes, Sennes e Braies. 
La Piccola Croda Rossa d'inverno,
da Sennes
In tutte le uscite ho  seguito lo stesso percorso, che chiamerei "via normale ampezzana": dal laghetto ormai quasi asciutto di Rémeda Rossa, per evitare il lungo giro di Forcella Cocodain, si sale direttamente per ripidi dossi erbosi e sassosi, senza tracce né indicazioni ma con una certa logica, fino in cresta, uscendo sulla Rémeda Rossa e lì innestandosi nella via normale, segnalata con radi bolli rossi e ometti, che proviene dal Rifugio Biella. 
In discesa, ho sempre seguito l'aspra, suggestiva dorsale delle Jeralbes, già relazionata da Berti, lungo la quale si giunge alla Crosc del Grisc, poco sotto il lago di Rémeda Rossa sul sentiero che scende a Ra Stua. 
Per visitare la cima ci sarebbero anche altre  opportunità, utilizzabili in ambo i sensi,  che necessitano comunque  di esperienza e disinvoltura. La prima segue il canale tra la Rémeda Rossa e la Croda, che s’imbocca dal citato laghetto. Il canale, già noto ai cacciatori, non presenta problemi alpinistici, e da ultimo va rimontato sul lato sinistro orografico, fino alla sella tra la Rémeda e la Piccola (informazioni M.A. e I.P.).
La seconda possibilità, percorsa perlopiù in discesa, si stacca dalla cresta delle Jeràlbes e mediante un franoso canale con tracce d’ungulati, consente di raggiungere la Val Montejèla e il Bivacco Dall’Oglio (informazioni S.L.). 
Le due possibilità, note a pochi e prive comunque di  indicazioni e facilitazioni,  ravvivano una via normale fisicamente impegnativa, pregevole e tutto sommato  un po’ noiosa, vista la distesa di pietrame e detriti che bisogna rimontare per giungere in vetta. 
Da qualsiasi parte si affrontino, sui declivi della Piccola è poi abbastanza usuale sorprendere ungulati, che lassù hanno uno degli habitat ampezzani preferiti e si possono fotografare. Per farlo, comunque, occorrono prontezza, silenzio e rispetto!

Sachsendank 1883 Nuvolau 2023. 140 anni di storia e memoria

Ernesto Majoni e Roberto Vecellio, Sachsendank 1883 Nuvolau 2023. 140 anni di storia e memoria , pp. 96 con foto b/n e a colori, Cai Cortina...