21 mar 2018

Il Cabiòto de ra Méšcores: una storia di fantasia che non prescinde dalla realtà

Le foglie dei salici erano nuove, brillanti e gli aghi dei larici teneri, di quel verde chiaro che dura soltanto poche settimane.
La luce abbagliante di mezzogiorno sbiadiva il cielo che riprendeva colore solo nel contorno del Tabùrlo, del Taé e degli altri monti.
Uomini e donne vestiti a festa salivano da Pian de Loa in compagnia del parroco, scherzavano insieme, la bella giornata e l’occasione facevano il resto.
Era la prima domenica di giugno del 1900: le sorelle Franceschi, note in Ampezzo con il soprannome di Méšcores, avevano scelto quella data per inaugurare il loro Cabiòto, che era lassù, a lato della strada, poco prima del Ponte Alto.
Che forra spaventosa! Mancava il fiato a sporgersi dal parapetto, eppure qualche ragazzo coraggioso se ne stava lì a guardare, con la testa penzoloni, mentre gli altri, che al ponte non erano neppure arrivati, facevano dentro e fuori del locale - una bella baita di legno d’abete rosso con graziose tendine di pizzo alle finestre – con un bicchiere di vino e un pezzetto di lardo.
Fuori, ad un lato della porta, erano stati sistemati alcuni tavolini con sedie, e intorno ad uno di questi si erano accomodate tre anziane signore cui l’età non aveva tolto né il bel colorito roseo, né un robusto appetito.
Era stato il farmacista a portarle fin lì su di un carretto da fieno, e loro gli avevano chiesto di non passare a prenderle prima che andasse giù il sole. Niente di più facile dal momento che il farmacista considerava il vino la migliore delle medicine e quel giorno ne aveva già bevuto a sufficienza: dopo solo un’ora si era accomodato sul prato caldo di sole dietro al Cabiòto, la giacca appallottolata a cuscino, le braccia conserte sul petto e i piedi appoggiati su una ceppaia che sembrava messa lì apposta. Buon riposo!
Ma torniamo alle padrone di casa, le Méšcores, cioè “i mattarelli”, che, come il soprannome lascia immaginare erano grandi cuoche. Anzi grandissime.
Nella loro casa di Ciademai avevano iniziato un mese prima a preparare i casunziéi con gli s-ciopetìs e ne avevano fatti cinquecento. Un lavoro infinito, paziente e preciso, come solo le donne possono fare. E prima, per settimane, nei prati ai piedi del Pomagagnon, avevano raccolto le pianticelle quando ancora non avevano messo i fiori bianchi a palloncino e quindi non era facile riconoscerle.
Bene, di tutti quei casunziéi su al Cabiòto ne erano arrivati poco più di quattrocento, gli altri avevano fatto gola ad una volpe, madre da poco e perciò indebolita e con bocche voraci da sfamare.
Senza perdersi d’animo le Méšcores avevano messo in cantiere una minestra d’orzo che sarebbe bastata a dieci cucciolate di volpi fameliche, ma l’avevano cucinata su a Ponte Alto, in un paiolo di bronzo su cui il fabbro Sgnèco aveva inciso con caratteri svolazzanti il nome del nuovo ristorante, “Cabiòto de ra Méšcores”.
Come dolce, per finire in bellezza quel pranzo inaugurale, avrebbero servito degli ottimi carafoi.
Dal fondovalle la gente continuava ad arrivare in gruppetti, a coppie, qualcuno era da solo ma avrebbe trovato degli amici, e si assiepava fuori del Cabiòto per un bicchiere di vino, un piatto di minestra o dei casunziéi. Ci fu anche chi, nella gran confusione, urtò una delle tre anziane signore comodamente sedute, ricevendone in cambio un colpo di bastone sui polpacci, e ci fu chi, dopo aver bevuto più del farmacista, disse che avrebbe provato a volare, lanciandosi dal ponte come aveva fatto quel cavaliere di Marebbe. Per fortuna non accadde niente di brutto (anche il farmacista si riprese, pronto per tornare a Cortina con le tre signore sempre più petulanti), anzi fu una delle più belle giornate della storia d’Ampezzo.
La prima domenica di giugno del 1900 su al Cabiòto de ra Méšcores, che da quel giorno per molto tempo avrebbero preparato piatti squisiti per i passanti.

(racconto di Lorenza Russo, 2015)

8 mar 2018

La "curta dei A.M.D.A.", il Pra Danèl, i segreti della natura e della storia

Un pomeriggio, cercando sul Pra Danèl (tra Acquabona e Dogana Vecchia) eventuali resti della cappella dei Piniés, demolita nel 1866 secondo quanto afferma Don Pietro Alverà nella "Cronaca d'Ampezzo nel Tirolo dagli antichi tempi al sec. XX", che comunque non vedemmo, fummo allertati da strani ronzii nel bosco. 
Nulla di extraterrestre: solo marito e moglie che, mediante una carrucola a mano, scivolavano allegramente su un cavo attraverso il Boite. Due ampezzani, un po' stupiti dell'incontro con noi in quel luogo lontano e noto solo a cervi e a cercatori di funghi, che sostarono volentieri a parlare del prato, della presunta cappella, della carrucola e della tabella "Ra curta dei A.M.D.A.", affissa lì vicino su una pianta.
Non riporto le notizie sul prato, che m'interessavano pensando che il fondo (un'enclave privata in territorio regoliero) possa ricordare un avo del ceppo Majoni Danèl (due membri del quale, i fratelli Silvestro e Serafino, salirono nel 1855 da Campo a Cortina e, accasandosi nella casa "numero 8" con due figlie di Nicolò Bigontina Padresanto, ebbero dal suocero il soprannome di Coléto). Mi colpirono invece i dati sulla carrucola, integrati una sera d'autunno in un piacevole scambio di idee con l'albergatore e cacciatore Marco Apollonio.
Sul Pra Danèl, con la Croda Marcora
sullo sfondo (foto E.M.)
Negli anni '60, quando fu chiuso l'accesso ai motori sulla strada boschiva Socol-Chiapuzza, limitando così solo ai pedoni la frequentazione della sponda destra orografica del Boite, Amadeo Dallago e Marco Apollonio - interessati a cacciare e pescare su quel lato del torrente, ma che ritenevano scomodo il modo di arrivarci - tesero sulla corrente un cavo metallico (residuato della funivia di Pocol), che mediante una piccola carrucola consentiva e consente ancora, a chi voglia provare l'emozione, di scivolare lungo il Boite quasi a pelo d'acqua: oggi la cosa non è più una novità, essendosi diffusa in varie località turistiche col nome "esotico" di "zip line". 
La scorciatoia fu denominata "ra curta dei A.M.D.A.": si sarebbe dovuta chiamare "ra curta dei D.A.M.A.", acronimo di nome e cognome dei fautori Dallago e Apollonio, con un rimando anche al nome scientifico del daino, Dama dama Linnaeus; riconoscendo la paternità dell'idea al giovane amico, Dallago propose invece di chiamarla "A.M.D.A." (Apollonio Marco e Dallago Amedeo). Così è rimasta, istituendo un toponimo popolare che manca nelle fonti ma non sulla bocca di chi conosce i luoghi. Oggi la carrucola è un po' meno sicura, perché una delle piante alle quali fu ancorato il cavo risente inevitabilmente del peso degli anni.

Sachsendank 1883 Nuvolau 2023. 140 anni di storia e memoria

Ernesto Majoni e Roberto Vecellio, Sachsendank 1883 Nuvolau 2023. 140 anni di storia e memoria , pp. 96 con foto b/n e a colori, Cai Cortina...