2 mar 2011

1993-94, sul Campanile Toro



Un’ascensione portata a termine felicemente per due volte, nelle stagioni in cui, mantenendo l’interesse e l’entusiasmo per l’arrampicata e facendo sempre tutto con soddisfazione, abbassavamo man mano i gradi di difficoltà da affrontare, fu la normale del Campanile Toro, nel gruppo degli Spalti omonimi. Si trattò di un’esperienza completa ed interessante, tanto più pregevole perché fuori degli itinerari battuti. Ne serbo un buon ricordo soprattutto per l’orrenda sfacchinata che, come tutti i candidati alla vetta, dovemmo obbligatoriamente sorbirci per giungere all’attacco dal Rifugio Padova. Oltretutto la via fu piuttosto breve, condensandosi in circa un’ora di ginnastica attraverso camini e pareti interessanti e mai snervanti. Ma se il gusto della salita in sé si concentrò in poche lunghezze di corda, dopo un buon paio d’ore di cammino su ghiaioni ripidi e con poche tracce, lo scenario nel quale è inserita la sommità ed il colpo d’occhio che si dispiega da lassù, ci ripagarono sicuramente delle fatiche sopportate. Anche per noi (Carlo, Federico, Orazio, Roberto, Tomaso e l’onnipresente narratore di queste storie) la normale del Toro fu un’ottima occasione per avvicinarsi ad un mondo che conserva in buona parte le caratteristiche genuine incontrate dai primi salitori, gli austriaci Berger e Hechenbleickner, giunti per primi sulla vetta già vista da Domegge, il 22 luglio 1903. Del Campanile Toro, sul quale hanno lasciato la firma illustri alpinisti come Piaz, Stösser, Molin e i Ragni cadorini, ho gradita memoria ma quasi nessuna immagine. Il piacere di toccare, in punta di piedi, vista l’apparente fragilità della cima, la piccola piattaforma sommitale e di lassù far rintoccare la campana issata nel 1952, che si sente fino al Rifugio Padova, oltre 1000 metri più sotto, fu entrambe le volte inimitabile.

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