12 lug 2014

Sull'Alpe di Lerosa, cinquant'anni fa

Verso la metà degli anni '60, mio padre ricevette l'incarico di "Marigo" della Regola Alta di Lareto; per questo, tra giugno e settembre, doveva salire spesso sull'Alpe di Lerosa, per verificare col pastore la situazione e gli eventuali problemi e necessità del pascolo e del bestiame.
Nell'estate 1965, e forse anche in quella successiva, salimmo dunque lassù quasi ogni domenica, rigorosamente a piedi dal curvone di Podestagno, dove riuscivamo a farci scaricare dal benevolo autista della linea Cortina-Dobbiaco: io avevo solo sette anni, ma ricordo una sensazione strana: che la valle d'Ampezzo fosse tutta chiusa lì, tra Ra Stua, Lerosa e Gotres!
Lassù alla baita che serviva d'appoggio al pascolo conobbi il pastore, un bel tipo poco più che quarantenne che si chiamava Francesco e veniva da Arina, un paesino del basso Bellunese che ancora oggi non conosco, e la sua famiglia.
Con quale stupore, e senza capire il perché, il pastore mi disse che non poteva mangiare zucchero, e per questo aveva sempre al seguito una scatoletta di saccarina! 
Aveva accanto la moglie, di cui ho dimenticato il nome ma ricordo bene che era “bianca e rossa come un pomo” e quando scendeva a Cortina ci portava i panetti di burro coi fiorellini, e quattro figli: Teofilo, Gianna, Antonio e Luciano. Vivevano tutti insieme nel ristretto ambiente del Cason per l'intera estate, sempre a contatto con il bestiame, il sole, il vento, la luna, la neve, la pioggia. Confesso che un pochino li invidiai davvero!
L'Alpe di Lerosa con la sua baita
(photo courtesy G. Mendicino, archivio LDB)
Mi sovviene di aver seguito un giorno Teofilo, che aveva forse undici anni ma era ormai un aiuto pastore navigato, lungo la Val di Gotres fin quasi alla Statale d'Alemagna, per recuperare una manzetta sfuggita dal pascolo; rivedo le bottiglie verdi col latte che i ragazzi usavano per catturare le vipere, le cui teste allora venivano compensate dal Comune con 500 lire l'una; ricordo la confidenza con cui Antonio e Luciano giocavano con le mucche, infilando le dita nelle loro narici umide...; mi pare di risentire ancora le chiacchiere dei grandi, riflesso di un'epoca più semplice, ormai del tutto tramontata.
Al termine dell'incarico, che durò qualche anno, la famiglia scese nella Pedemontana trevigiana per gestire un'attività commerciale, e laggiù uno dei due ragazzi più giovani morì in un incidente stradale. 
Chissà se gli altri familiari sono ancora tra noi, dove vivono, se si ricordano delle estati trascorse in Lerosa, abitando e lavorando sui “pascoli del dio Manitù”, come aveva battezzato l'Alpe il compianto amico giornalista Mario Caldara...

3 commenti:

  1. Lerosa è uno di quei luoghi magici a cui è impossibile restare indifferenti, ma quella magia si rivela in tutta la sua forza solo in alcuni momenti del giorno, al mattino presto e alla sera, quando la montagna si scrolla di dosso i turisti (capisco che anch'io appartengo a questa categoria) e si riveste di panni antichi.
    Per me Lerosa voleva dire soprattutto animali, anzi, camosci: mi recavo lassù con mia madre, ho portato le mie figlie quando avevano un anno o poco più e se veniva qualche amico che, con poca fatica, voleva vedere "la Montagna", la mia meta era la forcella che si affacciava sul Graon de in po Caštel (credo si chiami così) dove stazionava un branco di camosci che, nella mia memoria, sfiorava i 100 esemplari (altri tempi!) e che ancora ricordo disperdersi a raggiera quando le pareti sovrastanti rivelavano la loro friabilità con improvvise scariche di sassi. Quello stesso branco mi aveva osservato, sorpreso, una mattina di buon ora (saranno state le sei e mezza) in cui mi ero recato al Cason per cercare il berretto di lana verde con un orsacchiotto rosso ricamato, a cui la mia Ilaria, 2 anni, teneva tanto e che aveva perduto il giorno precedente.
    Ma Lerosa vuol dire anche una mucca dispettosa che aveva deciso di trascinare per tutta l'alpe il mio zaino, imprudentemente lasciato incustodito (e aperto!), o un vitellino giocherellone che mi aveva scelto come compagno di giochi, indifferente alle mie fughe nel bosco (che considerava con grande disappunto).
    Lerosa per me vuol anche dire un giorno di inizio novembre che, ad una mattinata in maniche di camicia, aveva fatto seguire una piccola buferetta di neve trasportata dal vento che avevo letteralmente assaporato, disteso sul prato, con gli occhi chiusi e la bocca aperta. O un pomeriggio di maggio, in cui, al limitare del bosco sottostante, mi ero appostato per fotografare un (vecchio?) camoscio che si era lasciato avvicinare oltre ogni limite imposto dalla prudenza e non mi ero accorto, io, della presenza, poco sopra di me, di un (giovane?) capriolo che vedendomi, invece di scappare, si era lanciato, apparente verso di me, ma in realtà verso il camoscio e lo aveva urtato con una certa forza in modo che, accorgendosi anche lui di me, potesse mettersi "al sicuro" (cosa che fece prontamente).
    Potrei continuare ... ma non è il caso.
    Grazie ancora

    Saverio

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  2. Pensa che, pur abitando a Cortina, sono già alcuni anni (otto, credo) che, per un motivo o per l'altro, non saliamo in Lerosa.
    Ma dopo le decine di volte in cui siamo passati da quelle parti, in primavera, estate, autunno e anche d'inverno, qualche rara volta soli e spesso in compagnia a far bisboccia nel Cason (mi piacerebbe ritrovare la foto di quel fine settimana d'autunno del 1977 in cui salimmo al Cason col sacco a pelo e lo zaino pieno di bottiglie, e facemmo una di quelle bevute solenni che si ricordano anche dopo anni ... anche perché lassù ci aspettava l'amico Stefano, scomparso giovane nel 1996).
    Se ripenso a Lerosa, mi pare di essere sempre lassù, e guardare dall'alto le montagne che amo.
    Grazie della tua poesia.

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  3. UAO RAGAZZI!!! MI FATE PIANGERE!!! Ma Lerosa val bene tutte le lacrime del mondo, è un posto fantastico dove, in tempi ormai così lontani (per fortuna...) ho immaginato potesse diventare il mio sudario.. Perchè esiste un posto più bello di questo da vedere prima di morire?? Io credo di no... Isy

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