5 nov 2021

A proposito del termine alpinistico "apritore"

Nel suo interessante studio sulle “Parole antiche”, 4° volume della serie “Le parole dell’italiano” (R.C.S., Milano 2020), Vittorio Coletti - professore emerito di Storia della lingua italiana - scrive che tra “i nomi in -tore, anche se i mestieri e le attività si sono col tempo moltiplicati […], e quindi i nomi aumentati, molti si sono perduti, perché la lingua antica ne aveva prodotto anche per designare gesti occasionali o persone che non abitualmente ma solo in una data occasione facevano quell'operazione o quel lavoro o quel gesto.
Secondo il docente, accanto ad altri termini, oggi sarebbe uscito dall'uso anche “apritore”, un vocabolo già presente nel Decamerone di Boccaccio. Limitandosi all’uso che ne è diffuso nell’ambiente dell'alpinismo, forse l’affermazione si potrebbe correggere: indubbiamente il sostantivo risulta ancora vitale, seppure percepito in modo diverso, e identifica “chi apre, chioda, realizza una via alpinistica.”
La guida Ferruccio Svaluto Moreolo (1959-2021),
fecondo apritore di vie sulle Dolomiti
Quindi, almeno in montagna, “apritore” non sembra un termine perduto soltanto perché “indica non un’attività stabile, un mestiere, ma un’azione episodica…” Penso agli alpinisti che hanno aperto il maggior quantitativo di vie in roccia: ieri, come Severino Casara (129 percorsi nelle Dolomiti, in 51 anni di attività), Ettore Castiglioni (123, in 20 anni), Gabriele Franceschini (116, in 29 anni), e oggi, come Eugenio Cipriani (oltre 500 vie dal 1978) e Roberto Mazzilis (anch’egli più di 500 dal 1978, quasi solo sulle montagne Carniche e Giulie, e tuttora attivo). Non dimentichiamo poi coloro che chiodano e liberano tiri in falesia, aprono percorsi su ghiaccio o su misto, sciano lungo nuove linee su pareti ripide…
Per quanto non vada legato ad una vera e propria professione, il termine ”apritore” sembra quindi godere ancora di una certa vitalità.

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